Posts written by 120%

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    è un metodo abbastanza semplice...Richiede di una pagina che vi venga detto quando essa viene visualizzata!....in pratica se volete vedere se una persona si interessi di voi basta semplicemente impostare la restrinzione di visibilità unicamente a quella persona...poi inserendo magari il link della vostra pagina...avrete la sicurezza che solo quella persona l ha potuta visitare...spero mi avrete capito !
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    per eliminare in modo definitivo il proprio account facebook basta proseguire cliccando Qui


    Per disattivarlo temporaneamente basta andare in alto a destra...cliccare su ACCOUNT,poi su impostazioni account e infine in fondo...disattiva account e seguire le procedure
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    la cronologia di facebook rimane salvata sul sito per un certo numero di ore,dopodiche(in media dopo una giornata)spariscono,oppure restano presenti solo la cronologia finale,se la discussione risulterebbe essere molto grande.

    Se si utilizza firefox come Browser basta installare come add-on Facebook Chat History Manager.bisogna creare un account a Facebook Chat History Manager (diverso da quello di Facebook, con una password) legandolo all'ID di Facebook di cui ho parlato sopra.

    L'ID è ottenibile tramite il pulsante Get Facebook ID quindi non ci sono difficoltà.
    Durante la creazione dell'account con l'ID, si deve premere su "Consenti" all'applicazione Chat History Manager.

    Su Firefox, per leggere la cronologia chat, basta andare sul menu Strumenti > Facebook Chat History Manager > View History.
    La storia delle conversazioni e tutto quello che viene scritto in chat viene memorizzato sul computer quindi non sarà visibile da altri pc e da altre persone; anche la password è interna al browser.
    La cronologia è una lista con alla sinistra i nomi degli amici e in alto i filtri per vedere i messaggi scambiati in chat oggi, ieri, questa settimana, nel mese e durante l'anno.



    Se invece si vuole aprire la finestra di chat quando un utente risulta off-line
    basta innanzitutto trovare l'id della persona che ci interessa...per scoprirlo basta visualizzare l album dell interessato e sfogliare le foto...apparirà un url del tipo www.facebook.com/profile.php?id=1618356XXX.

    dove l'id è la parte finale(il numero dopo id=)
    una volta trovato l'id basta scrivere sulla barra degli indirizzi
    javascript:Chat.openTab(1653160891)
    e premere invio
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    chiunque desidera farsi aggiungere dalle persone inserisca l'indirizzo del proprio profilo in modo tale da poter essere aggiunto.
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    se spieghi di cosa si tratta saremmo disposti a metterlo
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    ciaooo
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    OPERA DI ANTONIO GARGANO


    LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
    La Fenomenologia dello spirito era stata concepita da Hegel come un’introduzione al suo sistema filosofico, poi essa crebbe nel corso della stesura e assunse una dimensione del tutto autonoma, ma va tenuto presente che Hegel l’aveva concepita come introduzione al sistema. Prima di parlarne è necessario riprendere brevemente le tappe del discorso che portano a quel culmine dell’idealismo che è il pensiero di Hegel. Proprio nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Hegel afferma in maniera lapidaria, categorica: «Il vero è l’intero». Se applichiamo questa affermazione alla verità filosofica, Hegel vuol dire anche che il suo sistema filosofico costituisce un passo successivo, un completamento rispetto ai precedenti: la verità della filosofia non emerge semplicemente dal sistema hegeliano, ma da tutto l’insieme della storia della filosofia; secondo Hegel, il suo stesso pensiero è vero soltanto nell’interezza, nella completezza dello sviluppo del pensiero occidentale e in particolare dell’idealismo. Per seguire il suggerimento implicito di Hegel dobbiamo riprendere il discorso sull’interezza dell’idealismo tedesco. L’idealismo aveva superato il criticismo kantiano, che era debole dal punto di vista teoretico per il fatto di essere un sistema dualista, in quanto scindeva il fenomeno dal noumeno, e soprattutto, per la mentalità idealistico-romantica, Kant aveva il difetto di aspirare semplicemente alla conoscenza del finito, del fenomeno, senza lo slancio, tipico della civiltà romantica, a cogliere l’infinito, l’assoluto. Fichte, Schelling e Hegel, hanno invece la pretesa prometeica di cogliere la struttura dell’infinito, e di non limitarsi kantianamente al finito. Il primo tentativo è stato quello di Fichte. Questi ha compiuto un passo in avanti enorme rispetto a Kant in quanto ha abolito la cosa in sé, e, rompendo le barriere tra fenomeno e cosa in sé, ha avviato l’unificazione della realtà intorno al concetto di Io puro, ovvero di assoluto, ma Hegel lo accusa di “cattiva infinità”: l’infinito di Fichte continua a rimanere staccato dal finito. La storia umana avanza continuamente verso l’assoluto, verso l’Io puro, verso la libertà, ma non li raggiunge mai, c’è sempre qualche ostacolo del non-io che si frappone ancora. Di conseguenza l’infinito, l’assoluto, stanno sempre a una certa distanza dal finito, dall’uomo, dall’umanità e dalla storia: fra la storia e l’assoluto, fra l’uomo e l’assoluto, fra il finito e l’infinito, c’è sempre per Fichte ancora una certa distanza. Per questo Hegel lo rimprovera di restare nonostante tutto ancora all’interno di una mentalità illuministica. L’Illuminismo aveva condannato la storia dal punto di vista della ragione. Hegel dice in sostanza: Fichte ha compiuto un grande passo in avanti rispetto a Kant, ma in effetti ha posto la ragione, l’infinito, l’assoluto, da una parte e il finito, la storia, l’uomo, dall’altra parte.
    Un altro passo in avanti l’aveva compiuto Schelling, che sosteneva la compresenza di io e non-io all’interno dell’assoluto, quindi aboliva la distanza che permaneva in Fichte. L’assoluto di Schelling è un assoluto che vede tutti e due gli elementi, il finito e l’infinito, lo spirito e la materia, l’io e il non-io, sempre compresenti. Per questo motivo il giovane Hegel appoggia Schelling contro Fichte. Uno dei primi scritti di stretto carattere filosofico di Hegel, del 1801, è il saggio sulla Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: in questa presa di posizione egli propende per Schelling in quanto ha unificato i due elementi ancora in parte scissi in Fichte. Ma proprio la Fenomenologia dello spirito segna il momento in cui Hegel prende le distanze anche da Schelling, rimproverandolo di aver avuto una visione dell’assoluto quale «una notte in cui tutte le vacche sono nere», come dice con ironia. Che cosa gli vuol rimproverare? Se l’assoluto è unità indifferenziata di io e non-io, di finito e infinito, ne consegue che non c’è nessun principio che permetta di capire come dall’assoluto si passi alla dinamica del molteplice, del plurale, dei regni della natura: la concezione dell’assoluto di Schelling è una concezione statica, in cui c’è una mescolanza che, proprio per essere una mescolanza perfetta, non lascia poi capire per quale motivo da essa si debba passare a tutto il travaglio della natura in cui si differenziano tanti enti, tanti individui l’uno diverso dall’altro. Nella natura prevale dapprima il non-io sull’io e poi, progressivamente, nelle forme più mature, si capovolge il rapporto, ma questo dinamismo non è spiegato da un assoluto statico come quello che Schelling pone all’inizio del suo sistema.
    A questa visione schellinghiana Hegel muove un’obiezione fondamentale: essa è una visione puntuale del- l’assoluto, l’assoluto è una sorta di punto di indistinzione in cui si intrecciano strettamente io e non-io; l’errore di Schelling è stato proprio quello di aver visto l’assoluto come puntuale e come statico, come sostanza alla maniera di Spinoza. Hegel afferma invece nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, che l’assoluto non è sostanza, bensí è soggetto. Quest’affermazione ha un significato fondamentale: l’assoluto è dinamico, è in movimento come un soggetto, non è fermo come una sostanza inerte. Schelling invece lo ha concepito come sostanza, quindi come statico, inerte e puntuale. Qual è stata la conseguenza di questo errore di Schelling? Egli ha dovuto sostenere che la conoscenza dell’assoluto è possibile in base a un’intuizione molto simile all’intuizione estetica. Abbiamo detto che per Schelling l’arte è l’organo della filosofia: c’è qualche cosa di superiore al pensiero, c’è qualche cosa che sta più in alto della filosofia, ed è la sfera estetica. Per quale motivo? Perché la realtà suprema è l’assoluto, e l’assoluto si può cogliere con un atto in fin dei conti irrazionale, di intuizione, molto simile a quello con cui si intuisce la bellezza in un’opera d’arte. Con questa caratterizzazione dell’assoluto, Schelling è caduto nell’irra- zionalismo. Da qui bisogna partire per capire la visione molto diversa di Hegel.
    Hegel dice: l’assoluto non è statico, non è sostanza, bensí è in fieri, è in divenire, è soggetto. Che cosa vuol dire il fatto che sia in divenire? Che non potrà essere colto nella sua essenza mediante un’intuizione puntuale, bensí mediante un discorso, cioè mediante la ragione. A questo punto bisogna rifarsi alla distinzione tra intuizione e discorso. L’intuizione, che per lo più la filosofia limita al sensibile, è un atto di conoscenza, è un atto di apprensione unico, fermo nel tempo: afferrando questo bicchiere in mano o vedendolo con un unico sguardo ho un’intuizione di quest’oggetto. L’intuizione per lo più si limita al sensibile, è un atto puntuale, non ha uno sviluppo nel tempo. Schelling estende il concetto di intuizione alla conoscenza suprema dell’assoluto: l’assoluto è un punto di indistinzione di io e non-io e viene colto con una intuizione intellettuale, simile all’intuizione estetica. Hegel invece sostiene che l’assoluto, essendo divenire, non può essere colto da un singolo atto di intellezione, ma deve essere compreso da tutta una serie di atti, cioè mediante un ragionamento, un discorso. L’assoluto non può essere afferrato immediatamente, ma soltanto attraverso la sequenza di mediazioni in cui esso si sviluppa. “Mediazione” sembra un temine astratto, strano, ma invece è presente in ogni ragionamento. Ogni ragionamento implica il partire da una premessa e lo sviluppare appunto le fila del discorso attraverso termini intermedi – di qui la parola “mediazione” – per giungere a sostenere la propria tesi, per arrivare a dimostrare un teorema, per pervenire a una conclusione. Il ragionamento si sviluppa nel tempo e passa da un termine all’altro, è una forma di conoscenza mediata. Pertanto Hegel sostiene: non dobbiamo accettare la conoscenza intuitiva, immediata di Schelling, ma, essendo l’assoluto in divenire, essendo l’assoluto uno sviluppo, un processo, esso può essere colto soltanto mediante la discorsività, ovvero mediante il ragionamento, mediante il passaggio da un termine all’altro. A questo punto Hegel fa l’affermazione forse ancora più decisiva, che l’assoluto è un risultato: mentre per Fichte, per Schelling, l’assoluto è l’inizio, per Hegel l’assoluto è il risultato di tutto un percorso di mediazioni, è il risultato di quella sorta di enorme ragionamento di cui consiste la realtà. È come se la realtà fosse un insieme di termini ben connessi fra loro logicamente. Per cogliere l’assoluto si tratta di comprendere l’interezza della realtà in tutte le sue mediazioni, quindi non è possibile una conoscenza immediata, di tipo sentimentale, ma è necessaria una conoscenza, come dice Hegel, scientifica, che abbia la pazienza di passare da un termine all’altro, fino a giungere alla conclusione. L’assoluto è divenire, l’assoluto è soggetto, l’assoluto è risultato. Ora, il fatto che l’assoluto sia il risultato del passaggio per termini intermedi significa che bisognerà tenere presente la totalità del processo e che, se ci si fermerà semplicemente a uno dei termini intermedi, si avrà una visione falsata della realtà. Possiamo quindi aggiungere un nuovo carattere all’assoluto: l’assoluto è soggetto, è divenire, è risultato, ma è soprattutto totalità. Bisogna tenere presente l’intero sviluppo del ragionamento, l’intero sviluppo del processo, il che è non è semplice, perché il processo è il processo della realtà, cioè è l’insieme di tutto il divenire della storia umana, e, oltre la storia umana, dello sviluppo della natura.
    È stato detto che Hegel è una sorta di Eraclito moderno, e in effetti questo è vero: Hegel riprende per primo con forza la centralità del divenire che era stata propria di Eraclito, ma in una maniera molto più complessa. La verità della realtà è l’insieme dei suoi momenti, dal primo fino all’ultimo; l’assoluto è la verità di tutto questo sviluppo. Che cosa ne consegue? Che se ci si ferma sem- plicemente a un singolo elemento, a un “momento”, si ha una visione falsata della realtà, e questo è stato l’errore della filosofia precedente, e in particolare di quello che Hegel chiama “intelletto riflettente”. L’intelletto riflettente è il pensiero degli illuministi e di Kant. L’intelletto presenta secondo Hegel il difetto di cogliere i momenti del divenire come isolati, come scissi, come staccati gli uni dagli altri, pretende di cogliere il finito come separato da un altro finito, e procedendo in questo modo cade in un errore decisivo, in quanto non riesce ad afferrare la totalità e snatura i singoli elementi perché li svelle dal tutto di cui fanno parte. Per questo Hegel applica spesso l’aggettivo “astratto” al sostantivo “intelletto”: sono stati astratti gli illuministi, è stato astratto Kant, perché la pretesa di cogliere il singolo termine, di fermarsi a un termine intermedio senza andare oltre, implica una visione distorta in quanto si astrae (trae fuori) un termine dal tutto cui è connesso. Ogni termine è invece teso al superamento di se stesso, e qui arriviamo, appunto, alla logica di tipo nuovo, alla logica dialettica che Hegel introduce nella considerazione della realtà.
    Prima di Hegel la filosofia, tranne qualche accenno soprattutto in Fichte, aveva adoperato la logica dell’identità, la logica astratta dell’intelletto: ogni cosa è uguale a se stessa, ogni termine, isolatamente preso, è uguale a se stesso, A è uguale ad A. Il principio di identità implica che ogni cosa è uguale a se stessa (A) ed è diversa da quello che non è A, è diversa dall’altro da sé (B). Il principio di identità e il principio di non contraddizione sono alla base del ragionamento logico e alla base anche della filosofia dello stesso Kant. Quando Kant ha abbozzato una dialettica, nella Critica della ragion pura, ha contrapposto tesi e antitesi, cioè un’affermazione è uguale a se stessa e il suo contrario è uguale a se stesso: A = A, B = B. La dialettica kantiana è dicotomica, cioè consta di due termini. Con Fichte si è cominciato a introdurre un pensiero nuovo; per Fichte i termini della dialettica sono diventati tre: l’Io pone se stesso, ma l’Io nel porre se stesso pone anche il contrario di sé, il non-io; e dalla genesi del non-io scaturisce l’io empirico. Con Fichte si delinea una dialettica a tre termini, che è quella che Hegel accoglie e che estende a tutto il divenire. Per Hegel ogni cosa è identica a se stessa, ma, essendo immessa nell’ordine temporale, tende ad andare oltre se stessa, quindi è soltanto uguale a se stessa se viene vista avulsa, astratta, dal processo temporale, ma siccome invece è immessa in un processo temporale, tende a negare se stessa e a diventare diversa da quello che è, diversa da A, cioè tende a diventare B. In termini schematici questo significa che ogni elemento della realtà, che si può chiamare tesi, cioè ogni posizione, ogni cosa “A” che mi trovo posta davanti, (“tesi” nel senso etimologico da títemi, il verbo greco che significa porre) tende a trasformarsi in qualche cosa di diverso da sé, diverso da A, e quindi in non-A, cioè in B. Ogni realtà è autocontraddittoria, è identica a se stessa e tende a diventare qualche cosa di altro, di diverso da sé, quindi a ogni tesi corrisponde un’antitesi. L’antitesi è la negazione della tesi, ma non è una negazione assoluta, che distrugge la tesi: come Hegel dice, è una negazione determinata, cioè una negazione circoscritta; l’antitesi è l’annientamento di una parte della tesi per portarne in luce altri aspetti, quindi non è un processo di distruzione della tesi, bensí è un processo di superamento (Aufhebung) della tesi stessa. Attraverso il contrasto tra quello che la cosa è e quello che la cosa tende a essere nasce un nuovo equilibrio, nasce una nuova entità, che è la sintesi di questo processo di contrapposizione. Riepiloghiamo: ogni cosa è autocontraddittoria, tende a superare l’equilibrio attualmente raggiunto e a conseguire un nuovo equilibrio; quel nuovo equilibrio è la sintesi. Nasce la triade di tesi, antitesi e sintesi. Naturalmente la sintesi a sua volta costituirà un equilibrio, un assetto del fenomeno che stiamo considerando; questo assetto, siccome il tempo non perdona niente e nessuno, potrà essere più o meno duraturo, l’equilibrio raggiunto potrà essere più o meno stabile, ma prima o poi è destinato a entrare in squilibrio per autocontraddittorietà. Notate che in Hegel non c’è mai un riferimento all’esteriore, tutto ciò che avviene, avviene in sostanza sempre per un dinamismo interno, per l’autocontraddittorietà delle cose. Anche la sintesi, a sua volta diventata un nuovo equilibrio, può essere considerata una nuova tesi, che darà luogo per autocontraddizione a una nuova antitesi, e così via, all’infinito. Il divenire per autocontraddizione, la negazione determinata di ogni tesi, significano un fatto ben preciso: presa un’entità qualsiasi, che può essere un essere vivente, una figura logica, oppure un sistema sociale, essa tende a trasformarsi in qualche cosa di altro, ma non in qualsiasi altra cosa, perché, appunto, il meccanismo che la anima è di una negazione determinata; essa porta in sé qualche cosa di diverso, ma di preciso: quello che è vecchio, quello che è superato nella cosa, verrà cancellato, ma quello che c’è di fecondo, di nuovo, verrà inverato e portato a un nuovo livello. In altri termini, che cosa vuol segnalare Hegel con questo tipo di dinamica? Che il divenire è un divenire ordinato, si sviluppa secondo una logica ben precisa, che nei manuali viene spesso schematizzata con la triade di tesi, antitesi e sintesi, ma che in effetti Hegel ha messa alla prova mostrando che tutta la storia e tutto il divenire si sviluppano in questo modo. Hegel non ha esposto la dialettica come sto cercando di sintetizzarla: ha dimostrato che la filosofia si sviluppa dialetticamente, che la religione ha una storia spiegabile con ritmi dialettici, che la storia dell’arte si può spiegare in questo modo, etc. Dal 1818 al 1831, l’anno della morte, Hegel ha tenuto corsi di lezioni a Berlino (di cui ancora non sono stati pubblicati tutti i manoscritti), illustrando l’andamento dialettico della realtà, mo- strando cioè che il diritto, la società, le forme artistiche, le religioni, le filosofie, seguono un divenire dialettico, un divenire ordinato.
    Riepiloghiamo: il vero è l’intero, il vero è la totalità, il vero è il divenire, ma il divenire si sviluppa in maniera ordinata, attraverso un meccanismo logico dialettico che la mente umana è perfettamente in grado di cogliere e di riprodurre. Per questo Hegel è stato definito, oltre che l’Eraclito moderno, “l’ultimo dei Greci”: infatti a questo punto possiamo ben comprendere l’affermazione famosa: «Tutto ciò che è razionale è reale; tutto ciò che è reale è razionale». C’è un logos, c’è una profonda razionalità in tutta la realtà; questa razionalità è fedelmente rispecchiata dalla razionalità della mente umana. La natura e la storia sono perfettamente comprensibili, sono animate da una logica, hanno al loro interno un logos, divengono in un ordine preciso, seguendo una successione ordinata di momenti, e la ragione umana è pienamente in grado di ripercorrere le tappe di questo divenire e di cogliere il logos presente nella natura e nella storia. C’è una perfetta razionalità della realtà e, proprio perché l’uomo è un essere razionale, ha la capacità di cogliere tutto il divenire, di capire la natura, di capire la storia. Ci troviamo qui di fronte alla visione più alta che la filosofia abbia prodotto dell’uomo: la ragione umana non ha nessun limite. Mentre per Kant la ragione umana era limitata dalla cosa in sé, continente sconosciuto, impenetrabile, oscuro, in cui non ci si poteva avventurare, per Hegel niente può fermare la ragione umana, che è in grado di comprendere tutto, anzi, orgogliosamente, dice Hegel, capisce anche Dio, perché sarebbe ben strano se Dio, che è l’entità suprema, invece di avere il carattere della suprema razionalità, fosse qualche cosa di sfuggente rispetto alla razionalità. Attaccando Schleiermacher e i romantici del sentimento, Hegel sostiene: «Dio non si coglie col sentimento o con la fede: Dio, essendo suprema manifestazione della realtà, è perfettamente razionale, quindi si può cogliere con la ragione». Siamo oramai lontanissimi da Kant. Kant aveva detto che la metafisica non è possibile come scienza. Nel bilancio della Critica della ragion pura la metafisica è espunta perché non è una scienza. Per Hegel, invece, è possibile conoscere tutto, è possibile conoscere l’infinito, l’assoluto, è possibile conoscere Dio stesso, in quanto esso è l’assoluto.
    A questo punto si potrebbe iniziare a parlare del sistema di Hegel, ma invece vi ho voluto porre all’attenzione la Fenomenologia dello spirito. Che cos’è la Fenomenologia dello spirito? Il problema è questo: abbiamo detto che non si può per Hegel iniziare immediatamente un discorso, in quanto viviamo sempre all’interno della mediazione, non si può iniziare a parlare direttamente dell’assoluto. Hegel non espone direttamente il sistema, ma scrive la Fenomenologia dello spirito, che è la descrizione di tutto il percorso, pieno di errori, che l’umanità compie fino ad arrivare al sapere assoluto. L’aveva concepita come una introduzione al sistema, perché il sistema anch’esso non può essere qualche cosa che si dischiude all’improvviso, bensí è il frutto di tutto il travaglio del pensiero, di tutto l’atteggiamento dell’uomo verso la realtà, anche nei suoi momenti negativi. Ma, come abbiamo detto, il negativo per Hegel non è negativo in assoluto, perché esso è qualche cosa di necessario per preparare uno stadio più avanzato; per Hegel tutta la storia umana e, in particolare, tutta la storia della filosofia, hanno qualche cosa da insegnare, perché attraverso le negazioni determinate hanno permesso di far salire nuovi gradini alla consapevolezza dell’uomo. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel cerca di ripercorrere tutti questi gradini, a partire dal livello più elementare di conoscenza, cioè dalla certezza sensibile, fino a giungere al livello supremo del sapere assoluto. Quando saremo arrivati al sapere assoluto si aprirà la prima parte del sistema, cioè la logica, che considera la prima manifestazione della realtà, l’idea: l’idea è l’insieme delle strutture logiche della realtà. Ma, prima di giungere alla logica, cioè prima di descrivere la struttura del mondo ideale, che è la “tesi” della realtà, Hegel ricostruisce nella Fenomenologia dello spirito tutto il cammino che precede.
    Che cosa vuol dire questo titolo? Da fáinomai, apparire – sono i modi di apparire, i modi di manifestarsi dello spirito nel percorso travagliato che lo porterà dai livelli infimi di conoscenza fino al sapere assoluto. Quando Hegel parla di “spirito”, bisogna tenere presente che intende, sostanzialmente, la consapevolezza, la coscienza, quindi la Fenomenologia dello spirito è l’insieme delle manifestazioni, dei modi di apparire della coscienza nel lungo cammino fino al sapere assoluto. C’è anche un altro motivo di questo titolo: il sapere che viene descritto in tutto questo percorso è un sapere apparente (un sapere fenomenologico), apparente perché non si è ancora arrivati alla pienezza della comprensione logica, non si è ancora arrivati al sapere assoluto. “Modi di apparire”, “manifestazioni”, “fenomenologia”: è una fenomenologia anche nel senso che tutti questi modi di apparire non colgono ancora la verità della realtà, ma scorgono un’apparenza di realtà, perché sono stadi soltanto preparatori. La fenomenologia è la conoscenza apparente nel suo svolgimento fino ad arrivare alla conoscenza matura, che Hegel poi esprime nel suo sistema. La Fenomenologia dello spirito ha come sottotitolo: Scienza dell’esperienza della coscienza. Per “esperienza” però Hegel non intende solo l’esperienza teoretica: “esperienza” per lui è tutto; l’arte, la religione, la filosofia, il diritto, la società, lo Stato sono tutti momenti in cui si manifesta l’esperienza umana. Per questo nella Fenomenologia dello spirito egli non prende in considerazione soltanto le forme di conoscenza, la sensibilità, la percezione, l’intelletto, ma tutta l’esperienza umana: l’esperienza giuridica, l’esperienza politica, l’esperienza religiosa. L’opera è molto densa, e soprattutto presenta questa difficoltà, che Hegel cerca di illustrare il cammino logico per cui da ogni forma inadeguata si passa a una forma più adeguata, ma egli cerca di far coincidere il più possibile questo percorso logico con il divenire storico e in questo ci sono forzature, unite a sforzi geniali, per far rientrare il contenuto storico nello svi- luppo logico. Nella Fenomenologia si intrecciano insomma una traccia logica e una traccia storica. È come se ci fossero due piani di discorso che si intersecano di continuo e creano qualche difficoltà di interpretazione.
    Hegel prima scrisse, tra l’altro di getto, quest’opera (la finì – secondo quanto riferisce il suo discepolo Gans – a Jena la sera prima della battaglia napoleonica: gli ultimi capitoli sono stati scritti molto in fretta), successi- vamente ha scritto la Prefazione. La Prefazione è molto importante: viene considerata la presa di distanza da Schelling e il principio della filosofia originale di Hegel. Hegel afferma all’inizio: «La vera figura in cui la verità esiste non può essere che il sistema scientifico di essa». Vuol dire: non ci si può illudere di attimi di apprensione immediata perché la realtà è strutturata, è complessa, è articolata; la verità esiste non come un punto indistinto, ma come un organismo, come un’architettura, come una struttura, quindi per conoscere la verità bisogna avere la pazienza di mettersi a seguire scientificamente (ribadisce questo termine) lo strutturarsi di questa architettura, in tutta la sua articolazione. Come c’è un sistema architettonico della realtà, ci dovrà essere un sistema architettonico del sapere, di conseguenza sarà necessario un sistema filosofico. Hegel è un filosofo fortemente sistematico: «La vera figura in cui la verità esiste non può essere che il sistema scientifico di essa. Collaborare a ciò, che la filosofia si avvicini alla forma della scienza, – affinché essa possa deporre il suo nome di amore del sapere ed essere sapere effettivo – è quanto io mi sono proposto». Afferma con un certo orgoglio: «Mi propongo di superare la fase della filosofia, perché la filosofia è “amore del sapere”, mentre io voglio arrivare al sapere stesso». Hegel in questo presenta una forte carica di autoconsapevolezza; è stato definito il filosofo della morte dell’arte, si potrebbe anche dire che è il filosofo della morte della filosofia, perché pretende di arrivare a un sapere effettivo, che non è più amore del sapere, come viene segnalato dall’etimologia della parola “filosofia”, ma è il sapere stesso. Hegel non pretende di chiudere la storia e di chiudere la filosofia col suo sistema, però ha l’orgogliosa consapevolezza di costituire un punto sicuramente terminale, di arrivo, almeno di una fase storica. Riprendiamo la lettura: «Ponendo la vera figura della verità in questa scientificità – o, ciò che è lo stesso, affermando che la verità ha l’elemento della sua esistenza unicamente nel concetto – io so bene che questo sembra contraddire una rappresentazione (insieme con le sue conseguenze) tanto pretenziosa quanto diffusa nella convinzione della nostra epoca». Hegel dice: vivo in un’epoca che è quella del Romanticismo, il Romanticismo si fonda su in-tuizione, bellezza, fede, sentimento, io invece, pur ade- rendo allo spirito di quest’epoca, sostengo che il nocciolo della comprensione è sempre un fatto concettuale e quindi scientifico. «Un chiarimento intorno a questa contrad- dizione non sembra quindi superfluo, anche se esso qui non può essere che una pura asserzione, come lo è la convinzione contro cui si rivolge. Se dunque il vero esiste solo in ciò o piuttosto solo come ciò che viene chiamato ora Intuizione, ora Sapere immediato dell’Assoluto, Religione, l’Essere – non l’essere nel centro dell’amore divino, ma l’essere stesso di questo centro», [non pretendere di essere come fedeli al centro dell’amore di Dio, ma pretendere proprio di cogliere l’essere di Dio; quindi se l’assoluto si concepisce come colto da un’intuizione, dalla religione, eccetera,] «allora da questo punto di vista ciò che si richiede per la presentazione della filosofia è piuttosto il contrario del concetto. L’Assoluto non deve venire concepito», [secondo i suoi antagonisti, quindi secondo Schelling, non deve venire concepito col pensiero] «ma sentito e intuito; non è il suo concetto, ma sono il suo sentimento e la sua intuizione che debbono avere la parola e venire espressi». Respinge l’idea che con il sentimento si possano avere forme di conoscenza dell’assoluto. Hegel riconosce che la sua epoca è caratterizzata da una novità, dal fatto che l’uomo vuole di nuovo affrontare l’assoluto, ma questa giusta esigenza è soddisfatta male da Schelling e dagli altri.
    «A questa esigenza corrisponde lo sforzo affannoso, quasi eccitato ed esasperato, volto a strappare gli uomini dal loro essere sprofondati nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e ad indirizzare il loro sguardo verso le stelle: come se essi, del tutto dimentichi del divino, fossero sul punto di accontentarsi, come il verme, di polvere e d’acqua». L’umanità è sprofondata nel materialismo; questa è l’analisi che Hegel dà dell’epoca, ed è molto importante perché l’epoca di Hegel è la nostra, dopo l’epoca della Rivoluzione francese non è nata nessuna nuova epoca storica: ci troviamo ancora nell’età contemporanea aperta dalla Rivolu- zione francese. Questa diagnosi hegeliana si può pertanto applicare all’oggi: l’uomo è sprofondato nel sensibile, ma ha un’esigenza di soprasensibile, è sprofondato nel finito, nel materiale, ma ha esigenze spirituali. Queste esigenze spirituali non vengono più soddisfatte in maniera piena dalle religioni. Allora si tratterà di trovare forme nuove per venire incontro all’esigenza di assoluto; questa esigenza è affrontata in maniera inadeguata dai romantici, da Schelling, da Schleiermacher, che si affidano alla fede, al sentimento, cioè a mezzi inadatti a raggiungere l’assoluto. «Un tempo essi avevano un cielo ricco di vasti tesori di pensiero e di immagini. Il significato di tutto ciò che è stava nel filo di luce che lo legava al cielo» [tutto veniva inteso in funzione del soprasensibile, della religione, della trascendenza]; «lungo questo filo, invece di trattenersi nella presenzialità di questo mondo, lo sguardo scivolava al di là di esso, verso l’essenza divina, verso – se così si può dire – una presenza al di là di questo mondo. L’occhio dello spirito doveva a forza essere indirizzato verso ciò che è terreno, e trattenuto presso di esso». Nell’epoca precedente l’uomo tendeva troppo a volgersi alla trascendenza, a leggere tutto nel segno del sovrasensibile, dello spirituale. Quindi l’epoca precedente alla nostra ha fatto bene, con l’Illuminismo, con lo sviluppo della scienza, ad attirare l’attenzione dell’uomo verso la terra, verso il sensibile, verso il materiale, perché l’uomo era distratto dai sogni della metafisica: «L’occhio dello spirito doveva a forza essere indirizzato verso ciò che è terreno, e trattenuto presso di esso; e c’è voluto un lungo tempo per introdurre laboriosamente quella chiarezza, che solo il sovraterreno possedeva, nell’opacità e nella confusione in cui giaceva il senso dell’al di qua, e per suscitare e rendere viva l’attenzione a ciò che è presente in quanto tale, attenzione che venne chiamata esperienza». C’è voluto un grande lavoro per fare in modo che l’uomo dalla trascendenza dantesca, per così dire, per cui ogni evento è iscritto nel soprannaturale, nel sovrasensibile, passasse all’attenzione per l’esperienza sensibile. Ci vorrà un lavoro altrettanto lungo per compiere il necessario cammino inverso. «Ora sembra che ci sia bisogno del contrario, e che il senso sia talmente radicato in ciò che è terreno, che occorra altrettanta forza per sollevarlo al di sopra di esso. Lo spirito si mostra così povero che, come il viandante nel deserto desidera un semplice sorso d’acqua, così anch’esso sembra anelare, per il suo ristoro, al mero sentimento del divino in generale: da ciò di cui lo spirito si accontenta, si può misurare la grandezza della sua perdita». Lo spirito anela al sovrasensibile e si deve accontentare di un piccolo sorso d’acqua, cioè delle posizioni di carattere estetico di Schelling, delle posizioni di carattere fideistico di Schleier- macher, invece ci vuole ben altro per raggiungere l’assoluto al livello nuovo a cui la storia umana è pervenuta. Hegel cioè dice: «L’uomo prima è vissuto nella metafisica, nel mondo del sovrasensibile, ed è stato giusto, con un lungo lavoro secolare, attirarlo alla terra e sviluppare le scienze; adesso l’epoca storica ci pone il problema inverso, l’uomo avverte un disagio, anela al sovrasensibile, allo spirituale, all’ideale, al divino, però non gli si può presentare l’ideale e il divino nella vecchia forma, non si può tornare indietro nella storia, quindi bisognerà trovare il modo di raggiungere l’assoluto nella forma della scienza, non nella forma dell’intuizione o della fede religiosa, perché altrimenti non ci si porrà al livello a cui la storia è arrivata. Lo sforzo suo è di raggiungere l’assoluto in maniera logica, cioè scientifica.
    «Del resto non è difficile a vedersi, che la nostra è un’età di gestazione e di passaggio ad una nuova era». Hegel ha piena consapevolezza che noi viviamo in un’età di trapasso in cui vecchie certezze si sono sgretolate e nuove certezze non sono nate. «Lo spirito ha rotto con quello che è stato fino ad ora il mondo del suo esserci e del suo rappresentare; esso è in procinto di calare tutto ciò nel passato, ed è impegnato nel travaglio della sua trasformazione». Viviamo troppo al di dentro di una trasformazione per rendercene conto: c’è un travaglio doloroso, che sembra implicare solo disgregazione, ma che è la preparazione di una nuova era: «In verità esso non è mai in quiete, ma è preso da un movimento sempre progressivo. Ma allo stesso modo che nel bambino [vuol dire nel nascituro, nel feto] dopo un lungo e silenzioso periodo di nutrizione, il primo respiro interrompe – con un salto qualitativo – il processo graduale di quello sviluppo soltanto quantitativo, ed allora il bambino è nato, così lo spirito in via di formazione matura lentamente e silenziosamente verso la sua nuova figura». Anche se non ce ne accorgiamo, l’epoca storica sta, faticosamente, per partorire qualche cosa di nuovo, però, appunto, secondo una delle leggi della dialettica, la quantità all’improvviso si trasforma in qualità, cioè si accumulano prima gradualmente le condizioni di un cambiamento e poi il cambiamento sboccia all’improvviso. Non ci rendiamo conto che viviamo in un’epoca di trasformazione, in cui si stanno accumulando le condizioni di una nuova nascita; sentiamo ogni tanto i gemiti di un parto che sta per venire, non lo abbiamo ancora visto, «ma io sono certo, dice Hegel, che lo spirito, cioè il divenire dell’uomo, sta per generare una nuova era, che poi sboccerà all’improvviso». Hegel è un filosofo rivoluzionario, per lui la storia presenta discontinuità: procede silenziosamente per anni, anche per secoli, poi, all’improvviso, emerge un’epoca nuova. È chiaro che ha presente l’esempio della Rivoluzione francese, per la quale si era entusiasmato con Schelling e Hölderlin di cui era compagno di studi. Ha in mente l’immagine dello spirito dell’uomo che ha cercato di prendere la direzione della storia con la Rivoluzione francese, e si aspetta lo sboccio di un’età nuova. Dunque: «Esso disgrega frammento dopo frammento l’edificio del suo mondo precedente, e il vacillare di quest’ultimo si lascia presagire soltanto attraverso dei sintomi sporadici; la leggerezza e la noia, che invadono ciò che ancora sussiste» [vien fatto di pensare alla leggerezza e alla noia di tanti intellettuali italiani ed europei i quali scoraggiano dall’uso dell’intelletto e dallo studio della filosofia perché sono oramai scettici e annoiati di tutto, e li vedo rappresentati già in questo passo di Hegel], «il vago presentimen- to di un ignoto, sono i segni che annunciano che qualcosa di diverso si va preparando. Questo graduale processo di sbriciolamento, che non alterava la fisionomia dell’intero, viene interrotto dall’aurora che, come un lampo, d’un tratto presenta alla vista la struttura del nuovo mondo». Avviene allora lo spuntare dell’alba di una nuova epoca.
    «Considerare un qualunque esserci, com’esso è nell’Assoluto, qui non significa altro, che dire che se ne è ben- sí parlato come di un qualcosa; ma che nell’Assoluto, nello A = A, non vi è nulla del genere, perché lì tutto è uno». È una frase un po’ contorta, che cerca di riprodurre un ragionamento di Schelling. «Contrapporre alla conoscenza differenziata e compiuta, o che ricerca ed esige il proprio compimento, quest’unico sapere, che nell’Assoluto tutto è uguale, oppure far passare il proprio Assoluto per la notte in cui, come si suol dire, tutte le vacche sono nere, questa è l’ingenuità della mancanza e vuotezza di conoscenza». C’è bisogno di una conoscenza differenziata, ma Schelling di questo non tiene conto, e pretende una unità indifferenziata. Hegel vuol dire: «Vi presenterò un sistema filosofico all’altezza della esigenza analitica dell’Illuminismo e di Kant, che hanno colto l’opportunità del discernimento, del separare, del vedere le cose ognuna nella sua individualità, e congiungerò questo con l’aspirazione all’assoluto e all’unità di Schelling. Il mio sistema filosofico sarà un sistema fortemente sintetico, perché raccoglierò tutte le istanze dell’intelletto astratto, che pure sono in parte giuste, dell’Illuminismo, e tutte le esigenze di sintesi e di assolutezza di Schelling. Sarò un filosofo che darà conto sia del finito, sia dell’infinito, mentre invece Schelling parla in fondo solo di un infinito che rimane sterile e astratto. «Secondo il mio modo di vedere, che dovrà giustificarsi soltanto mediante l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende da questo: che si colga e si esprima il vero non come sostanza ma, altrettanto decisamente, come soggetto, […] il vero è il divenire di se stesso».
    Il vero coincide con la propria autotrasformazione e autodeterminazione. È l’“immane potenza del negativo”: il processo della realtà, il divenire, passano per momenti di parziale distruzione, di cui bisogna tenere conto; se non si passa per questi momenti negativi si cade in un atteggiamento astratto. Il negativo fa paura, il negativo è la morte, ma, Hegel dice, la vera filosofia deve avere la forza di sostenere lo sguardo della morte, cioè deve assorbire anche il negativo, altrimenti rimane sempre esterna alle cose. «Il circolo che riposa chiuso in sé [la perfezione astratta] e che, come sostanza, trattiene i suoi momenti, è la relazione immediata, che non ha quindi nulla di meraviglioso. Ma che l’accidentale come tale, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato ed è effettivamente reale solo nella sua connessione con altro, ottenga una propria esistenza determinata e una libertà separata, questa è l’immane potenza del negativo:…». L’intelletto vede le cose staccate. Le cose sono tutte legate tra loro ed una cosa è effettivamente reale soltanto nella sua connessione con tutte le altre. È vero quello che è legato in connessione con altro; le cose nel loro isolamento sono false; è un po’ la ripresa di quanto Eraclito aveva espresso in maniera molto semplice: il bianco non può essere concepito senza il nero, la morte non può essere concepita senza la vita, A non può essere concepito senza il suo opposto B. Le cose si possono comprendere veramente solo nel loro legame con l’altro, ma c’è anche il momento in cui l’intelletto vede le cose come separate: questa è «l’immane potenza del negativo». «…è l’energia del pensiero, del puro Io». [L’Io, l’intelletto si pone di fronte alle cose e le scinde, le vede nel loro aspetto astratto, nel loro negativo]. «La morte, se vogliamo chiamare così quella irrealtà, è la cosa più terribile, e tener fermo ciò che è morto è ciò che richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, poiché questo pretende da lei ciò che essa non può fare. Ma non quella vita che si spaventa dinnanzi alla morte e si conserva intatta dalla distruzione, bensí quella che sopporta la morte e si mantiene in essa, è la vita dello spirito» [la vita (lo spirito è vita), ha bisogno della morte; il positivo ha bisogno del negativo]. «Lo spirito conquista la sua verità solo in quanto esso ritrova se stesso nell’assoluta lacerazione. Esso è bensí questa potenza, ma non allo stesso modo del positivo, che si distoglie dal negativo, come quando di qualcosa noi diciamo che non è nulla o che è falso e, dopo essercene così sbarazzati, ce ne allontaniamo tosto per passare a qualche cosa d’altro: al contrario esso è questa potenza solo in quanto guarda in faccia il negativo e si sofferma presso di esso». Riprende la grande concezione platonica: il vero si può capire soltanto in contrap- posizione al falso, nasce sullo sfondo dell’errore, nasce dall’errore. In che senso riprende Platone? Perché Platone ha concepito la filosofia come dialogo e il dialogo implica posizioni che vengono superate perché sono parziali, sono erronee, sono false. Hegel stesso dialoga con l’Illuminismo, con Kant, con Fichte e con Schelling; anzi direi con tutti i filosofi precedenti, quindi la sua posizione vera non può essere scissa dalle posizioni parzialmente erronee di Kant, di Fichte, di Schelling, e così via. Pertanto Hegel ripercorre il divenire della conoscenza umana da questo punto di vista, considerando tutto come importante perché quello che è negativo non va gettato via, ma è la premessa del positivo.
    Abbiamo visto l’essenziale della Prefazione, ora veniamo al contenuto dell’opera. I gradini per arrivare dalla conoscenza più banale al sapere assoluto sono quattro: la coscienza, l’autocoscienza, la ragione e lo spirito. Il primo stadio è quello della coscienza. “Coscienza” significa consapevolezza, prima di tutto essa è data dalla sensibilità, la certezza sensibile è la prima forma elementare di conoscenza. La certezza sensibile, rileva Hegel, è caratterizzata dal fatto che coglie il qui e l’ora, cioè riceve un impulso, un’impressione che sono puntuali, che sono ben delimitati. Il senso ci mette in contatto con quanto ci sta vicino, qui e ora. Hegel fa emergere dalla sensazione un meccanismo dialettico: la sensibilità non è adeguata, perché si ferma al qui e all’ora, vuole essere concreta, vuole afferrare quello che sta a portata di mano, però il qui e l’ora, che sono le caratteristiche di ogni sensazione, sono predicabili all’infinito, ci sono tanti qui e tanti ora, tutte le sensazioni hanno sempre un qui e un ora. Tra l’altro, se parlo di un qui e di un ora, ovviamente, nel cogliere l’attimo, mi sto rifacendo a un divenire temporale, mi sto riferendo implicitamente al tempo; nel dire che sto afferrando il bicchiere qui sul tavolo, implicitamente mi sto riferendo a uno spazio di cui questo è un punto limitato: un qui. Che cosa vuol dire? Che anche la sensazione, che è la conoscenza più immediata, essendo una conoscenza del qui e dell’ora, rinvia a qualche cosa di ulteriore. La conoscenza sensibile vuole essere qualche cosa di particolare, di individuale, che non ha niente a che fare con l’universale, e invece non è vero, perché ogni conoscenza sensibile è conoscenza di un qui e di un ora, ma questo qui e questo ora rinviano al tempo, rinviano allo spazio, e ogni sensazione potrò collocarla qui e ora. Quindi “qui” e “ora” sono predicati che posso usare indefinitamente: mentre con la sensazione pensavo di avere a che fare con qualche cosa di puntuale, di limitato, di immediato, di concreto, di particolare, essa si rivela contraddittoria: mi rinvia a qualcosa di più grande di lei, mi rinvia dal particolare all’universale, perché il qui e l’ora sono deter- minazioni di spazio e di tempo indefinitamente riutilizzabili. Ho sottolineato questo passaggio perché testimonia del tipico modo di ragionare di Hegel: anche quello che sembra più delimitato non può essere circoscritto, tende ad andare oltre se stesso.
    Il secondo stadio è quello della percezione. La percezione implica che si unifichino le sensazioni come riferite a uno stesso oggetto, per esempio il bianco, la forma conoide, la sensibilità liscia riferite al bicchiere: si unificano varie sensazioni intorno a un oggetto. Anche riguardo alla percezione, cioè al cogliere gli oggetti, Hegel si sofferma a sottolineare che si tratta di una conoscenza contraddittoria, che deve essere superata. Per quale motivo? Perché il bicchiere che ho preso ad esempio è uno, e infatti lo chiamo con un solo nome. Però è bianco, è liscio, ha una forma simile a un tronco di cono, può essere pieno, vuoto, ecc., cioè presenta tutta una serie di qualità, quindi è contraddittorio, perché è uno e insieme molteplice. Lo chiamo con un nome, ma in effetti è fatto di tante parti e di tante caratteristiche sensibili: è bianco, liscio, freddo. Hegel sviluppa più o meno questo ragionamento: se il bicchiere è uno e molteplice evidentemente o l’uno o il molteplice saranno nel bicchiere, mentre l’altro termine, che non è proprio del bicchiere, sarà nella mia mente. Se il bicchiere è molteplice vuol dire che l’unità gliela sto dando io, cioè sto unificando con un’operazione dell’intelletto varie caratteristiche e le sto mettendo assieme nel concetto di bicchiere; allora qualunque oggetto, essendo contemporaneamente, quando viene percepito, uno e molteplice, dà luogo a una contraddizione tra uno e molteplice. Se ci sono tutte queste qualità nel bicchiere l’unità non l’avrò dal bicchiere, ma da me stesso, oppure potrei dire il contrario, cioè che il bicchiere è uno e io lo elaboro in varie sensazioni.
    Comunque sia, a questo punto diventa chiaro che quando percepisco qualche cosa la rielaboro: entriamo in una terza fase, quella dell’intelletto. Quando percepisco un oggetto lo rielaboro, e Kant su questo punto ha perfettamente ragione, e viene pienamente assorbito da Hegel: l’intelletto è uno strumento che dà forma, che unifica, che smembra, che, insomma, applica proprie forme trascendentali agli oggetti. Dalla sensazione siamo passati all’intelletto, recuperando il discorso di Kant. Ora, quando la coscienza si è pienamente sviluppata, ha raggiunto lo stadio di intelletto, che cosa avviene? L’intelletto si accorge di essere capace di manipolare gli oggetti, di dare forma agli oggetti, quindi si rende conto di se stesso. Kant ha parlato di Io penso come l’insieme di tutte le categorie, l’appercezione trascendentale: nel momento in cui l’intelletto si rende conto di unificare gli oggetti, di dare forma agli oggetti, si rende conto anche di se stesso. Si passa così dalla coscienza all’autocoscienza. Lasciamo la prima sezione della Fenomenologia e passiamo alla seconda.
    Il soggetto, dopo essersi riversato sul mondo, arrivato all’intelletto, vede balenare un livello nuovo, cioè la conoscenza di se stesso, la consapevolezza di se stesso. L’autocoscienza è inizialmente caratterizzata da questo: sono consapevole di me, tutto il resto lo vedo come oggetto; fino a quando si tratta del bicchiere la cosa è abbastanza tranquilla, ma quando si tratta del prossimo, quando si tratta di un altro, scatta un meccanismo conflittuale. In quanto autocosciente tendo a vedere l’altro essere umano come un oggetto fra gli oggetti; naturalmente l’altro farà lo stesso nei miei confronti. Tenderò a vedere l’altro come un oggetto, o, meglio, come qualche cosa da ridurre a strumento, come il bicchiere è mio strumento. L’altro mi si presenta come un oggetto al pari degli altri oggetti, ma dall’altra parte mi si vede nello stesso modo. Si entra in una situazione di conflittualità. Le varie autocoscienze, i vari individui, si danno a una lotta reciproca. È stato notato, giustamente, che nel passaggio dalla coscienza all’autocoscienza si passa dalla teoria alla prassi. Sensazione, percezione e intelletto sono tre forme di conoscenza degli oggetti, quando siamo arrivati all’autocoscienza, cioè alla seconda parte della Fenomenologia, entriamo nella sfera della pratica. Le autocoscienze entrano in conflitto tra loro, si fanno la guerra tra loro. Hegel riprende la teoria di Hobbes: homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’altro uomo; l’uomo fa guerra a tutti gli altri: c’è il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. La situazione iniziale dell’autocoscienza equivale allo stato di natura di Hobbes: le autocoscienze sono in conflitto fra di loro. Che cosa succede? Che una vince e l’altra perde. Quella che perde non viene annientata, perché serve come strumento, diventa schiavo. A questo punto Hegel cerca di far coincidere il suo ragionamento con la storia: la prima fase della storia è l’età schiavistica, l’età greco-romana sostanzialmente. Il vincitore, l’autocoscienza che nella guerra contro l’altra autocoscienza ha prevalso, riduce l’altra autocoscienza a suo strumento, a suo oggetto, come la macina, come la vanga, come l’asino, la fa diventare suo schiavo. Inizia la famosa dialettica tra il signore e il servo, signoria e servitù, che è la prima figura dell’autocoscienza (“figura” è un termine che Hegel adopera nella Fenomenologia per indicare uno stato della coscienza). Abbiamo detto che secondo Hegel le cose non sono mai statiche, ma tendono sempre a trasformarsi. Il signore ha avuto la meglio sul servo, ma il servo deve soddisfare i bisogni del padrone, deve lavorare la terra, deve accudire gli animali, ha un contatto con la natura; il padrone perde il contatto con la natura, si limita a consumare quello che il servo ha prodotto. Allora gradualmente si viene a verificare questa situazione: il servo finisce con l’acquisire una coscienza di sé sempre maggiore, perché produce, sta a contatto con la natura, ha un sapere, un’abilità, una capacità tecnica; il signore si infiacchisce, non si confronta con le cose, si confronta con la natura solo attraverso la mediazione del servo. A un certo punto il servo si rende conto di essere egli il vero signore, perché senza di lui il padrone muore di fame, senza di lui il padrone non può soddisfare i propri bisogni. C’è un capovolgimento dialettico. Il servo diventa padrone del proprio padrone; il padrone si trova a dipendere dal servo per il suo sostentamento, il padrone si trova ad avere un contatto con la natura soltanto indirettamente attraverso il servo, quindi paradossalmente il padrone dipende dal servo. All’inizio di questa fase dialettica il servo dipendeva dal padrone, la sua vita e la sua morte erano nelle mani del signore, ma alla fine è tutto al contrario: il servo è diventato il padrone del padrone.
    Questo stadio corrisponde alla schiavitù antica e alla emancipazione dalla schiavitù; ora, il momento di emancipazione dalla schiavitù è il momento più importante della storia e anche il più delicato. Il servo alla fine del mondo antico, quando ha acquisito coscienza della propria superiorità, non si interessa più del mondo, nasce la filosofia stoica, che, come sapete, precorre elementi del cristianesimo: il mondo non conta, sono schiavo da un punto di vista materiale, ma quello che è veramente importante è la libertà interiore, non dipendo dal mio signore, sono un uomo libero. Questo atteggiamento si intreccia con quello dello scetticismo perché per lo scettico, appunto, l’oggettività, l’esterno non conta, conta soltanto la propria consapevolezza, il proprio punto di vista sulle cose. Alla fine del mondo antico nascono le filosofie stoiche e scettiche, filosofie in cui il mondo viene negato: il mondo non è importante: non ci interessa di essere sudditi dell’imperatore di Roma perché abbiamo la libertà dello spirito, secondo gli stoici e secondo gli scettici; ma soprattutto irrompe il cristianesimo che abolisce i rapporti di schiavitù e che predica che tutti gli uomini sono fratelli in Cristo. La fase iniziale del cristianesimo, che dura fino al Rinascimento, è quella della coscienza infelice. Mentre nel mondo antico, nel rapporto tra signoria e servitù, c’era uno scontro tra due autocoscienze, la personalità del signore e quella del servo, con il cristianesimo, che ha livellato gli uomini, tutti uguali perché fratelli in Cristo, la contraddizione entra nella singola coscienza, diventa un altro tipo di contraddizione. L’uomo si sente finito, si sente lontano dalla propria essenza spirituale e dall’infinito, da Dio; con un’immagine molto suggestiva Hegel dice: tutto il cristianesimo medievale converge verso le crociate, i crociati vogliono andare a vedere che c’è nel Santo Sepolcro e lo trovano vuoto. Vuole dire con questo: Dio è tornato in cielo, l’uomo è solo, con la sua finitudine, ma oramai aspira all’infinito, quindi tutta l’età cristiana medievale è l’età della coscienza infelice, vale a dire dell’uomo che si sente spossessato della sua vera natura, vive nel limitato, vive nel finito, ma ha avuto la venuta del Cristo, che gli ha lasciato intravedere il regno dei cieli, l’infinito, il sovrannaturale. L’uomo vive nel mondo naturale, ma aspira al sovrannaturale; la sua coscienza è intimamente lacerata e spezzata.
    Il passaggio successivo è un passaggio a un’altra fase, completamente diversa, che è quella della ragione: è vero che la coscienza cristiana, cioè la coscienza infelice, è lacerata, ma oramai il cristiano sa che tutto quello che conta è interiore, non c’è più un elemento di antagonismo esterno come nella dialettica servo-padrone, quindi si arriva alla fase superiore, che è quella della ragione, in cui l’uomo sa che oramai quello che conta sta al suo interno. La fase della ragione inizia storicamente con il Rinascimento. Con il Rinascimento si avvia il superamento della coscienza infelice, cioè del distacco tra finito e infinito. Il Rinascimento (basti pensare a Giordano Bruno) è immanentistico: Dio vive dappertutto, Dio è presente nella natura, la ragione tende a essere omogenea alla natura, a capire la natura: nasce la scienza. La ragione umana non ha più limiti, l’infinito è riconciliato col finito, l’uomo può conoscere la natura perché oramai egli ha capito che la sua ragione, che è tutto, non ha niente di esterno a sé. Inizia l’impetuoso sviluppo della scienza, con Galilei, Newton, ecc. La ragione osservativa si impadronisce sempre di più delle conoscenze del mondo. La ragione ha anche però un risvolto pratico, si manifesta anche come ragione attiva.
    Nella ragione attiva Hegel identifica tre figure fondamentali. Da una parte c’è il personaggio goethiano del Faust: raggiunta la propria autonomia, la forza della ra-gione, l’uomo tende nella sua pratica a godersi il mondo e ad affermare se stesso nel mondo. Questo atteggiamento risulta parziale: non basta volersi affermare, l’uomo ha anche in se stesso, nei suoi rapporti pratici, una voce interiore che gli dice di amare il prossimo, partecipa anche al mondo dei sentimenti. Al momento brutale di volontà di affermazione del faustismo, succede il momento del sentimentalismo. Sia l’edonismo, cioè l’atteg- giamento faustiano di volersi imporre, sia il voler essere amico di tutti, il voler avere rapporti di affettività con tutti, si rivelano però inadeguati, perché il mondo è organizzato male. Il mondo non recepisce la mia volontà di affermazione, di piacere, il faustismo, cioè la tendenza edonistica, ma non recepisce neppure la mia volontà di buoni rapporti, di rapporti fraterni, di rapporti cordiali, affettuosi, di amicizia con gli altri. Allora nasce il rigorismo della virtù, che coincide con il periodo della Rivoluzione francese: si vuole ristrutturare il mondo in modo che sia un mondo più umano. Agli atteggiamenti personali, volere il piacere, volere affermarsi, volere essere fratelli di tutti, volere buoni rapporti umani, che però sono atteggiamenti velleitari, che subiscono uno scacco, si sostituisce, alla fine dell’Età Moderna, il rigorismo della virtù. Evidentemente qui Hegel pensa a Robespierre, alla volontà di organizzare il mondo in modo che accetti la fratellanza, l’uguaglianza, la libertà; accetti i grandi valori che l’uomo ha elaborato nel corso dello sviluppo della ragione, nel corso dell’Illuminismo. A questo punto si passa all’ultima fase, che è quella dello spirito propriamente detto. Questo passaggio è complicato ed è la parte, tra l’altro, più convulsa della Fenomenologia dello spirito, quella che è stata scritta mentre sopraggiungevano le armate napoleoniche, con Hegel divenuto ansioso di chiudere quest’opera che lo aveva tanto impegnato. Possiamo limitarci a brevi cenni perché la dottrina più matura dei momenti dello spirito Hegel la ristruttura completamente, rispetto a questo abbozzo della Fenomenologia, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e negli anni successivi; mentre la Fenomenologia rimane la parola decisiva di Hegel fino a questo punto, quando si comincia a parlare di spirito le opere successive sono molto più chiare e molto più mature.
    In che cosa lo spirito si differenzia dalla ragione? La ragione è soprattutto la ragione dell’individuo che ha avuto le velleità di afferrare il piacere, di costruire rapporti di amicizia, di imporre un ordine nel mondo, ma sostanzialmente è la ragione del singolo; con lo spirito, invece, si passa a qualche cosa di più profondo. Il singolo si è scontrato con la realtà, il Faust di Goethe è caduto, è caduto il sentimentalismo, che qualcuno vuole vedere ricondotto a Rousseau, è caduto Robespierre. Lo spirito invece è una fase diversa in cui non c’è più la velleità del singolo che vuole, come Don Chisciotte, combattere contro i mulini a vento, cambiare il mondo, introdurre le sue idee nel mondo. Lo spirito non è qualche cosa di passeggero, di destinato ad essere sconfitto, a essere sorpassato: lo spirito dà luogo a creazioni permanenti. Lo spirito è il momento più alto perché è il momento in cui la comprensione dell’uomo si attaglia pienamente alla realtà, quindi dà luogo a costruzioni che rimangono, a quelle che Hegel chiama “seconda natura”. Nello spirito l’uomo è creatore. L’uomo si trova di fronte la natura, ma crea un altro mondo, una seconda natura, che è il mondo del diritto, della famiglia, dello Stato, dell’arte, della religione, della filosofia. Lo spirito non è transeunte, non è destinato ad essere sconfitto; esso si radica nella realtà, perché corrisponde al momento più alto di comprensione dell’uomo, che veramente afferra la realtà con la sua ragione e si riesce a radicare nella realtà, riesce a impiantarvi qualche cosa di duraturo, che Hegel chiamerà nella Filosofia del diritto “seconda natura”, nel senso che è quasi una seconda creazione. Le creazioni mature dello spirito sono i grandi sistemi religiosi. I grandi sistemi religiosi cercano di cogliere l’assoluto e di organizzare popolazioni intere intorno a credenze che rimangono nei secoli, se non nei millenni, ma le religioni sono solo il penultimo stadio dello spirito, perché esse colgono l’assoluto, il divino, l’infinito, in una maniera inadeguata, ancora legata al mito, alla rappresentazione. Lo sviluppo supremo dello spirito, l’ultimo stadio della Fenomenologia, è il sapere assoluto, cioè il momento in cui l’uomo capisce, al di là della religione, che l’infinito, il divino, l’ideale, sono perfettamente razionali, hanno una forma razionale, e quindi devono essere capiti allo stesso livello, cioè nella forma della ragione. La religione rimane un gradino al di sotto, l’arte un gradino ancora più sotto; perché se tutta la real-tà è logica, tutta la realtà è ragione, l’assoluto è ragione, la forma adeguata per cogliere l’assoluto sarà la forma filosofica, la forma del ragionamento scientifico della filosofia. All’assoluto razionale corrisponderà un sapere assoluto altrettanto razionale, e questo è il culmine dello sviluppo dello spirito. A questo punto la Fenomenologia dello spirito si conclude e si apre la logica, cioè il tentativo di studiare la struttura ideale dell’assoluto.
  8. .
    Critica del GIUDIZIO

    Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della Critica della ragion pura. Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi versi oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un importante pensatore del Novecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per l’umanità è contenuta nella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi venturi: si dovrà sempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della bellezza e del finalismo della natura.
    Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.
    Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione opposta rispetto a questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura si contrappone il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia il contrario di “meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un “regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula dell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini è il regno della morale: se la morale si realizzasse pienamente sarebbe il regno della finalità: ognuno sarebbe considerato dagli altri come un fine in sé. Il finalismo della Critica della ragion pratica è opposto al meccanicismo della Critica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion pratica si presenta la libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni finalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragion pratica emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kant si rende perfettamente conto di questa contraddizione e cerca di sanarla nella Critica del giudizio.
    La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si rintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la conciliazione sarà avvenuta. Questo è appunto il tentativo che Kant compie nella Critica del giudizio. Un altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo detto nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antago- nismo: nella sfera conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile una considerazione della natura che ci faccia andare oltre la conoscenza fenomenica? Kant affronta qui un problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dal rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è una delle difficoltà di questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna tenere presente che in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà, capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità di giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, a un’altra facoltà dell’uomo, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, questa sfera, grosso modo, è la sfera del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica.
    È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significa valutazione della facoltà di giudicare; i giudizi sono di due tipi: da una parte c’è il giudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il giudizio sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudizio determinante; poi ci sono i giudizi emessi dalla sfera del sentimento, del gusto, dalla facoltà di giudicare, che chiama giudizi riflettenti. Kant denomina ora “giudizio determinante” il giudizio sintetico a priori, cioè il giudizio conoscitivo emesso dall’intelletto, di cui ha detto tutto quello che c’era da dire nella Critica della ragion pura. Perché questa innovazione terminologica? Perché Kant sostiene che, per distinguerlo da quello riflettente, il giudizio sintetico a priori si può chiamare “determinante” in quanto consiste in una reciproca determinazione, delimitazione, della categoria e della cosa. ‘Determinare’ viene dal latino terminus, che significa confine, pietra di confine tra i vari poderi, tra i vari appezzamenti di terreno. Determinare significa confinare, delimitare; un giudizio determinante è un giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa. Che cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se consideriamo per esempio la categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomeni causali; nel momento in cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoria di causalità, la sto cioè confinando, le sto ponendo limiti, applicandola a un caso specifico, particolare. Così pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dà loro una caratterizzazione specifica collegandoli attraverso la categoria di causalità. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, è dunque determinante in quanto delimita, determina: determina la categoria e insieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio determinante è un giudizio conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è stata già analizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio determinante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisogna riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data, ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: in un oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini, si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra. Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggetti belli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio estetico e il giudizio teleologico.
    Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioé verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici, invece, sono giudizi che si riferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso.




    A questo punto va sottolineata l’attenzione che Kant rivolge al mondo biologico. La filosofia del Seicento e del Settecento è stata dominata dalla fisica galileiana e newtoniana; i problemi di metodo che si sono posti i filosofi del Seicento e del Settecento erano stati suscitati prevalentemente dalla fisica. Il fiorire della biologia a fine Settecento e poi il suo sviluppo nell’Ottocento mostrano alla riflessione filosofica che c’è un mondo molto più complesso di quello fisico, il mondo del vivente, in cui il meccanicismo non spiega tutto. Nel corso dell’Ottocento si arriverà all’evoluzionismo di Darwin, a una filosofia che coincide con una biologia, ma Kant è il primo a porsi con chiarezza il problema del vivente: l’organismo vivente scompagina la visione meccanicistica che ci è venuta dal Seicento, dal Settecento, da Galileo e da Newton, in quanto nell’organismo vivente non funzionano solo le leggi fisiche implicanti un rapporto di esteriorità fra le parti. Le leggi della fisica considerano parti di materia, corpi che agiscono su altri corpi dall’esterno, dando luogo a tantissimi fenomeni: gravità, accelerazione, attrito, dinamica dei fluidi, incidenza dei raggi luminosi, ecc., ma sono tutti eventi che riguardano esteriorità che si pongono in relazione con altre esteriorità, oggetti che sono reciprocamente esterni, le cui dinamiche sono interpretabili in base al meccanicismo. Nella sfera biologica invece il meccanicismo non spiega i fenomeni in maniera adeguata, perché in un organismo il rapporto delle parti col tutto non è un rapporto di esteriorità, bensí di implicazione reciproca e di relazione col tutto. Per fare un esempio molto banale, un organo divelto da un organismo vivente (un ramo staccato da un albero, un petalo staccato da un fiore) non ha una sua consistenza autonoma: esso ha vero significato solo all’interno del tutto. Nella biologia il concetto di totalità organica, di cui la parte è semplicemente parte, è decisivo; in biologia il tutto precede le parti, nella fisica invece le parti possono essere autonome. Negli altri campi delle scienze le parti non sono “parti”, sono elementi, stanno per conto loro, e quindi si potranno sommare tra di loro e sommandosi daranno luogo al tutto, invece in biologia il tutto precede le parti, in quanto logicamente la parte è subordinata al tutto e non si può svellere dal tutto mantenendo ugualmente la sua funzione. Pertanto in questa sfera il meccanicismo, la reciproca esteriorità, la prevalenza della parte sul tutto non spiegano i fenomeni, e soprattutto – fatto che ci interessa per lo sviluppo della filosofia romantica – si rivela inadeguata la mentalità propria della fisica (dominante anche nella Critica della ragion pura) per cui c’è causa ed effetto, una esterna all’altro, e il mondo è fatto di tante cause e tanti effetti, cioè di tanti frammenti, che poi possono essere ravvicinati tra di loro fino a formare somme e totalità, ma in effetti hanno dimensione autonoma; nella biologia, invece, le parti non possono essere viste come indipendenti: il tutto predomina sulle parti, e questa sarà una prospettiva decisiva per l’idealismo.

    Riepiloghiamo: il giudizio riflettente si divide in giudizio estetico, cioè di finalità soggettiva, e giudizio teleologico, di finalità oggettiva. Fissato questo schema, vorrei proporre una serie di brani tratti dalla Critica del giudizio, ma prima di tutto una delle ultime pagine della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono lo spirito d’un’ammirazione e d’una venerazione sempre nuova e sempre crescente, quanto più la riflessione vi si applica: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Il primo spettacolo, d’una moltitudine innumerevole di mondi, annulla, per così dire, la mia importanza di essere animale, che deve rendere la materia di cui fu formato alla terra (un punto nell’universo), dopo di essere stato per breve tempo (non si sa come) animato da una forza vitale». È una visione molto suggestiva e drammatica: l’uomo è un granello di sabbia, egli deve rendere la sua energia vitale alla terra, che a sua volta è un punto nell’universo. Nella prospettiva della natura l’uomo è annullato, è un granello di sabbia su un altro granello di sabbia, sembrerebbe privo di qualsiasi valore. Al contrario, la legge morale ci fa scoprire il nostro enorme valore: «Il secondo invece eleva infinitamente il valore di me come ragione per la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indi- pendente dall’animalità ed anche da tutto il mondo sensibile». Nell’agire morale l’uomo è indipendente dalla materia. Questo è il dualismo, come Kant stesso lo ha espresso in maniera mirabile. A questo punto finisce la Critica della ragion pratica e inizia la Critica del giudizio.
    Questa è la definizione che dà Kant di giudizio: «Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale». Il giudizio riconduce un particolare a un universale mediante una categoria. Si tratta di congiungere un soggetto con un predicato, un soggetto particolare con un predicato universale: questo è il giudizio. «Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) [in termini kantiani la categoria] il giudizio che a questo sussume il particolare è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare [il fiore, il tramonto, l’arcobaleno, la statua, ecc.], il giudizio che deve trovare il generale [a cui sussumerlo] è semplicemente riflettente». Kant dà questa definizione per distinguere i giudizi: il giudizio determinante è un giudizio in cui l’universale è già dato sotto la forma di una categoria, invece nel giudizio riflettente ho di fronte a me il particolare e devo riflettere per trovare qual è la sua finalità, sotto quale universale finalistico ricondurlo.
    A questo punto Kant apre un discorso molto importante: cerca di fondare l’autonomia della sfera estetica. Il giudizio estetico mi permette di cogliere il fatto che l’oggetto, naturale o artificiale che sia, sembra essere fatto apposta per suscitare il giudizio nel soggetto. Kant sottolinea che questo giudizio estetico, il giudizio per cui una cosa viene qualificata come bella, non ha niente a che vedere con un giudizio empirico, quindi non ha niente a che vedere con la materialità, con la fattualità della cosa, è, come sempre in Kant, un giudizio trascendentale. Kant opera una rivoluzione copernicana anche nell’estetica. La rivoluzione copernicana nella conoscenza è racchiusa nella formula: l’Io è il legislatore della natura. La seconda rivoluzione copernicana è quella della morale: non ci sono contenuti buoni di azione, ma è il soggetto, con la sua ragione, a stabilire ciò che è buono, cioè corrispondente alla ragione; anche nel campo morale il legislatore è l’Io, il soggetto, l’uomo. Infine nell’estetica, nella sfera del bello, è il soggetto che decide che cosa è bello; è l’uomo che, con un’operazione di tipo trascendentale, ricerca il riflesso della bellezza nelle cose. Non ci sono oggetti belli di per sé: è l’uomo, il soggetto, che proietta l’esteticità, il finalismo estetico sugli oggetti. Una rivoluzione copernicana anche nell’estetica: l’essere bello di una cosa non dipende da fattori di carattere empirico, materiale, ma da un elemento di carattere trascendentale. E la parola, “trascendentale” per Kant indica sempre qualche cosa che è presente a priori nel soggetto e viene messo in gioco dall’oggetto. Su queste basi, Kant cerca di distinguere con chiarezza il gradevole dal bello. In quanto trascendentale, anche il giudizio riflettente è universale; questo sembra oggi un paradosso, in quanto dominano estetiche di tipo arbitrario. Kant afferma che il bello è soggettivo ma universale nello stesso tempo: è vero che il bello è una proiezione del soggetto sull’oggetto, ma tutti gli uomini attuano questa proiezione in maniera analoga. Il punto non è evidente a prima vista. Kant afferma con nettezza: il bello non ha niente a che fare col gradevole. Il gradevole risponde alla famosa massima latina “De gustibus non disputandum”: quello che è gradevole per me può non essere gradevole per te, e non possiamo prevalere l’uno sull’altro, ognuno si terrà la propria opinione su quello che considera gradevole secondo i suoi gusti, in quanto il gradevole è qualche cosa di empirico; a Tizio piace il caffè amaro, a Caio piace dolce: sui gusti non si discute. Quando si tratta del bello, invece, secondo Kant si ha a che fare con una sfera universale: il bello non è soggettivo nel senso di arbitrario, individuale. Tale è il gradevole. Il bello è soggettivo nel senso universale e trascendentale.
    La prima caratteristica del bello è che esso è disinteressato. «Bello è ciò che piace senza interesse – Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o una rappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di tal piacere dicesi bello». Che cosa intende Kant per interesse? «È detto interesse il piacere che noi connettiamo alla rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». Kant tra l’altro apre qui la strada all’estetica romantica del fantastico: l’arte e la bellezza in generale non hanno niente a che vedere con la reale esistenza delle cose di cui si occupano, in quanto la bellezza è qualche cosa di trascendentale, non è legata alla materialità, all’empiria, alla fattualità, e neppure all’esistenza. Il bello è disinteressato: ci si trova in un rapporto di godimento estetico quando non si ha alcun interesse per l’esistenza reale dell’oggetto. Kant specifica meglio questo nel periodo successivo: «Esso ha perciò sempre relazione alla nostra facoltà pratica (desiderio o appetizione o volontà). Ora invece, quando si tratta di decidere se qualcosa sia bello o non bello, non si chiede se a noi o a qualunque altro importi o anche solo possa importare l’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nell’atto della semplice pura contemplazione (intuizione o riflessione)». Quando ho interesse a che una cosa esista, secondo Kant, è per tre motivi: o perché mi può dare piacere (desiderio); o perché mi può essere utile (appetizione); o perché può portare al bene (volontà). Desiderio, appetizione, volontà che cosa implicano? Desiderio implica interesse alla cosa perché mi può dare piacere; appetizione, interesse alla cosa perché essa mi può recare utilità; volontà, la volontà buona, interesse all’esistenza della cosa perché essa mi può portare al bene morale. Queste affermazioni di Kant sono state di importanza grandissima nella storia dell’estetica. Il bello è definito come una qualità autonoma, disinteressata rispetto all’esistenza dell’oggetto, quindi disinteressata rispetto a ogni finalità pratica. Di conseguenza, quando ci troviamo di fronte a un’opera che per esempio produce effetti di utilità, o di bontà, non per questo siamo di fronte all’arte. Dal punto di vista kantiano, quando un artista ricerca un fine di utilità, per esempio di suscitare un sentimento patriottico, di dare un insegnamento, ecc., non c’è la bellezza, non siamo in contatto con l’arte. Allo stesso modo Kant dice che bisogna stare attenti anche all’interesse della volontà, cioè all’interesse che l’oggetto artistico, l’oggetto bello, susciti bontà, muova la volontà buona, perché anche questo è estraneo alla pura contemplazione estetica. In questi casi l’arte è stata inquinata da un interesse pratico. Questo interesse pratico, basso come l’utilità, o alto come la bontà, comporta pur sempre un inquinamento della pura contemplazione estetica. Allora, perché ci sia la poesia veramente pura, perché ci sia l’arte veramente pura, ci dev’essere il disinteresse assoluto verso tutti i risvolti pratici che l’oggetto può implicare. Non parliamo, ovviamente, dei banali risvolti di mercato: è chiaro che un’opera d’arte non ha niente a che vedere con il suo valore di mercato, che è un fatto crassamente pratico, utilitaristico in senso bruto. Ma addirittura, ripeto, anche l’utilità nel senso più elevato, come nel caso del patriottismo, è estranea alla sfera della bellezza, alla sfera estetica, alla sfera dell’arte.
    «Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Circa il gradevole ciascuno riconosce che il suo giudizio, fondato su di un sentimento personale, si limita, quanto al valore, alla sua persona. Quando perciò egli dice: il vino delle Canarie è gradevole, egli non s’offende se un altro lo corregge e gli ricorda che può solo dire: il vino delle Canarie è gradevole per me… in riguardo al gradevole bisogna attenersi al principio che ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Tutt’altrimenti sta la cosa per il bello. sarebbe ridicolo se alcuno, che ci tenesse al proprio gusto, cercasse di giustificarlo col dire: quest’oggetto (come quest’edifizio, quell’abito, quel concerto, quella poesia) è bello per me. Perché egli non può chiamare bello ciò che piace solo a lui… Egli dice perciò: la cosa è bella, e non attende l’accordo degli altri circa il suo giudizio perché li ha trovati più volte d’accordo con sé, ma lo esige. Egli li biasima quando giudicano diversamente e nega loro quel gusto, che pure tutti dovrebbero avere. Perciò non si può dire che ciascuno ha il suo gusto particolare: ciò sarebbe come dire che non vi è gusto». Il gradevole è soggettivo e personale, il gusto è invece soggettivo ma universale, trascendentale; il gusto è quello che ci permette di formulare il giudizio estetico, che Kant infatti chiama “giudizio estetico o di gusto”. Quest’affermazione sembra paradossale, ma riflettiamo con un esempio: anche se consideriamo l’opera d’arte più riconosciuta, la Gioconda, qualcuno può dire di essere andato al Museo del Louvre a vedere la Gioconda e di non aver vissuto alla sua vista alcuna emozione estetica. Si può mai sostenere che il gusto è universale, come afferma Kant? Direi che la difesa di Kant si può articolare in questi termini: per raggiungere veramente il giudizio estetico bisogna prescindere da tutto ciò che è empirico, da tutto quello che è fattuale, materiale. Bisogna escludere l’utilità, la morale, ogni praticità. Non è facile, perché tutto questo si insinua nelle maniere più imprevedibili nella nostra considerazione estetica. Che cosa voglio dire? Una cosa apparentemente banale: se una persona è stanca o distratta non riesce ad apprezzare la Gioconda, infatti c’è un elemento fisico, materiale, fattuale, che impedisce di mettere in moto la funzione trascendentale superiore. Tutto ciò non è per niente scandaloso, infatti, se una persona è stanca, non riesce neppure a dimostrare un teorema di geometria, cioè a usare correttamente la ragione. Per Kant si può entrare in sintonia con la bellezza, si può emettere il giudizio estetico, soltanto quando si sono messe da parte tutte le pesantezze dell’empiria. Ripeto, se non c’è una disponibilità o una educazione all’apprezzamento della bellezza, purtroppo spesso avviene che non c’è neppure un’educazione o una disponibilità all’uso dell’in- telletto e della ragione. Allora, come una persona non colta, non avendo avuto coltivata la propria razionalità, non riesce a risolvere un problema, così, non avendo avuto coltivata la propria facoltà di giudicare, non riesce ad apprezzare un’opera d’arte; ciò non toglie che la capacità di risolvere il problema e la capacità di apprezzare l’opera d’arte siano universali, a patto che però queste potenzialità umane vengano educate ed esercitate. E Kant aggiunge anche un altro elemento: «Bello è ciò che piace universalmente senza concetto». Si riesce a cogliere la bellezza di un’opera d’arte in maniera intuitiva, senza un ragionamento, senza uno sforzo di carattere concettuale. La bellezza si coglie intuitivamente, “senza concetto”. Come non ha niente a che vedere con la pratica, così l’arte non ha niente a che vedere con la teoria. Ciò che è bello non riguarda la pratica, l’utile, il piacevole e la morale, ma non riguarda neppure la conoscenza, la teoria: un romanzo non ci dà una conoscenza sul reale; il romanzo, la poesia, le giraffe in fiamme o gli orologi che si liquefano di Salvador Dalì, sono oggetti non reali, la Divina Commedia è un viaggio completamente fantastico, non ci dice niente sulla realtà di fatti che siano avvenuti. Kant vuol dire: l’estetica è una sfera autonoma dalla pratica, ma anche dalla teoria. Bello è ciò piace universalmente senza concetto, cioè senza riferimento alla conoscenza.
    Il bello è disinteressato e universale, poi Kant aggiunge che è necessario. Ribadisce che tutti devono ricono- scere, se si mettono in sintonia con la cosa bella, che essa è bella, quindi il bello è appunto universale e necessario insieme. Infine aggiunge un’altra definizione: il bello è finalistico senza scopo. Che cosa vuol dire? Se avesse uno scopo, ricadremmo nell’empirico; cioè se avesse lo scopo di arricchirci, di darci piacere, ecc., sarebbe un fatto empirico. La bellezza presenta un ben diverso finalismo: il bello nasce quando c’è una finalità di armonia, di proporzione tra le parti che compongono la cosa bella; questa finalità si manifesta poi nella finalità di rispondere al nostro senso di armonia, di proporzione. Il bello è finalistico nel senso che ha il fine di attivare il senso di armonia del soggetto, di mettere in moto il finalismo interno al soggetto. Queste sono le caratteristiche del bello per Kant.
    Kant distingue il bello libero e il bello aderente. Il bello libero è quello che egli considera più puro. Si tratta di un concetto che ci aiuta molto a capire che cosa Kant intende per bellezza. Leggiamo il brano che vi si riferisce: «Così i disegni à la grecque [i disegni geometrici che si ripetono in maniera armoniosa indefinitamente], gli arabeschi [Maometto impediva la venerazione delle immagini, per cui gli Arabi svilupparono la decorazione per arabeschi, motivi ornamentali vegetali che si ripetono inde- finitamente, senza rappresentare niente di preciso], nelle incorniciature o nelle tappezzerie non significano nulla per sé: essi non rappresentano nulla, non rispondono ad alcun oggetto secondo un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si può anche ricondurre al medesimo genere di bellezza le fantasie musicali (senza tema), anzi tutta la musica senza testo. Nella valutazione di una bellezza libera (secondo la pura forma) il giudizio di gusto è puro». La musica senza tema, gli arabeschi, le greche, ecc., che non mirano a far immaginare niente e non sono la riproduzione di un’immagine, sono le forme di bellezza più pure, in quanto non presentano il pericolo di inquinamento dell’emozione estetica da parte di un interesse. Oltre al bello libero c’è anche un bello aderente, che aderisce all’oggetto. Dice Kant: «Ma la bellezza di una figura umana (sia essa maschile, femminile o infantile), la bellezza di un cavallo, di un edificio (chiesa, palazzo, arsenale, villa) presuppone il concetto di un fine che determina ciò che la cosa deve essere e quindi un concetto della sua perfezione, ed è perciò una bellezza aderente». La bellezza libera non si riferisce a nessun concetto, a nessuna immagine, a nessun modello; la bellezza aderente: un cavallo perfettamente proporzionato, un essere umano come quelli che disegnava Leonardo da Vinci, oppure una casa armoniosa, ecc., bene o male rispondono pur sempre al modello di cavallo perfettamente elegante, di casa perfettamente proporzionata, ecc. Il bello aderente è meno puro di quello libero in quanto cerca di rispondere alla perfezione di un modello, di aderire a un modello, al concetto della cosa di cui è immagine, mentre invece il bello libero non pre-tende di riprodurre alcuna immagine. Kant prosegue: «L’unione del buono (ciò per cui il molteplice è buono a qualche cosa, secondo il suo fine) con la bellezza altera a sua volta il giudizio stesso». Nel bello aderente c’è la tendenza a che la bellezza corrisponda a un modello che altera il giudizio estetico, non lo fa essere perfettamente puro.
    A questo punto Kant nella Critica del giudizio passa a un’altra dottrina cui accenno soltanto perché è importante per il Romanticismo: a proposito del bello d’arte, afferma che il bello d’arte ha una caratterizzazione precisa, esso è prodotto dal genio. Introduce un concetto che sarà al centro dell’estetica romantica: il bello artificiale per essere prodotto ha bisogno di una personalità particolare, di una personalità che abbia una sensibilità fuori del comune, ha bisogno del genio. La definizione del genio è data da Kant in questo senso: il genio possiede una tale creatività originaria che sembra dare luogo a fenomeni naturali. Esso è assolutamente alieno da regole; non può sottostare a regole. C’è una polemica con il classicismo: il genio non si può ispirare a modelli, esso è semplicemente creatore; come la natura, dà luogo a forme che crea da se stesso. La vera opera d’arte deve dare l’impressione di una tale perfezione, di una tale organicità, da sembrare un organismo vivente nato dalla forza generatrice della natura. La forza generatrice della natura è eguagliata soltanto da pochi uomini eccezionali, che hanno una sensibilità particolare, i geni, la cui creazioni danno l’idea di un che di spontaneo come un organismo naturale.
    Un altro elemento romantico in Kant è quello del sublime. In che cosa questo si distingue dal bello? Il bello è qualche cosa che ha una forma, che è caratterizzata da proporzione e armonia. Il sublime, invece, è qualche cosa di informe. Per esempio sublimi sono la distesa dell’oceano, un massiccio montuoso, una nevicata, un’eruzione vulcanica. Mentre il bello è sempre qualche cosa di circoscritto, di delimitato, che ha forma, il sublime, proprio perché è informe, è tendenzialmente infinito, e si distingue dal bello anche perché ci procura un’inquietudine. Il bello ci fa sentire a casa nostra, ci mette a nostro agio, ci sembra rispecchiare la nostra più intima finalità, è pienamente consono con noi stessi. Invece il sublime ci spaventa, ci dà il senso della nostra piccolezza, della nostra insignificanza fisica, a cui, però, subentra immediatamente dopo il senso della grandezza morale, della grandezza spirituale dell’uomo. Il sublime presenta dunque una dinamica particolare: prima sembra essere qualche cosa di aggressivo, che schiaccia l’osservatore, ma il soggetto, subito dopo, recupera il senso della propria superiorità spirituale su questa entità che dal punto di vista fisico gli sembrava soverchiante e minacciosa. Il sentimento del sublime, che si manifesta nei confronti dell’informe, del grandioso, presenta due manifestazioni: il sublime matematico e il sublime dinamico. Il sublime matematico è generato da un’estensione immensa: il mare, il deserto, un ghiacciaio, un massiccio montuoso. Invece il sublime dinamico è una forza soverchiante, una potenza straordinaria che sembra doverci travolgere e di fronte a cui, invece, acquistiamo poi il senso della nostra grandezza morale; per esempio l’eruzione vulcanica, il mare in tempesta, un uragano, una tormenta di neve, e così via.
    Vediamo un po’ meglio e più da vicino che cosa dice Kant: «Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso di depressione delle nostre energie vitali [mentre il bello intensifica le nostre energie vitali, ci fa sentire in espansione, il sublime è un’esaltazione che segue a una depressione: ci sono due momenti, è più complesso]. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Dapprima si ha un senso di oppressione e di sconfitta, poi ci si riprende. Questa concezione influenzerà profondamente l’estetica romantica, anzi l’estetica fino a oggi, in quanto, rispetto all’arte classica, all’arte rinascimentale, all’arte neoclassica, in cui tutto è ben proporzionato, ben delimitato e c’è il senso della prospettiva, con la teoria del sublime anche l’informe e l’illimitato rientrano nella sfera estetica. L’informe prende il sopravvento su quello che è dotato di forma. Questa tendenza, iniziata con il Romanticismo, è delineata nella teoria del sublime di Kant. Se i romantici si possono avventurare su strade che pervengono fino all’orrido è proprio per la teoria del sublime di Kant, il quale per primo ha colto una sfera dell’estetica che non implica semplicemente la soddisfazione di veder riflessa l’armonia, di godere l’intensificazione delle energie vitali, ma può essere anche la conseguenza di un sentimento contrapposto; su questa strada poi alcuni romantici arriveranno a teorizzare l’estetica del brutto, perché paradossalmente anche certe forme parzialmente brutte possono mettere poi, per contrasto, in moto un sentimento di armonia nell’uomo. L’arte, dall’Ottocento in poi, è arrivata a forme che prima erano assolutamente impensabili.
    «Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello». Del sublime non si deve provare orrore, timore, come non si deve provare piacere nel caso del bello; anche nel sublime, sottolinea Kant, non c’entra l’empirico, il materiale, il sensibile: se temo non sono in procinto di avvertire il sentimento del sublime; come se ho una sensazione di piacere corporeo, non sto avendo a che fare col bello. Come il bello è separato dal corporeo, dal sensibile, dal materiale, così anche il sublime. Quindi: «Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello. Egli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibile provar piacere in un timore effettivamente sentito [se si è veramente in pericolo per un’eruzione vulcanica non si potrà provare nessun sentimento estetico per l’eruzione stessa]. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minaccia è gioia. Ma questa, se deriva dalla liberazione di un pericolo, è gioia solo quando noi pensiamo che non ne saremo più minacciati; e si è tanto lontani dal cercare l’occasione di riprodurre in noi tale sensazione, che anzi non ci pensiamo mai volentieri. Le rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, l’oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l’alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono a un’insignificante piccolezza il nostro potere di resistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro». Se contempliamo questi spettacoli della natura senza essere affetti da un sentimento empirico di paura, allora si mette in moto il senso del sublime, cioè allo sgomento segue il nostro senso di superiorità morale. «In tal modo la Natura nel nostro giudizio estetico non è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia in noi una forza (che non è natura), per cui consideriamo come insignificanti quelle cose delle quali ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita), e riconosciamo quindi che la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo assolutamente soggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo campo, un così assoluto dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come se essa si estendesse alla sfera dei principii supremi della nostra vita e riguardasse la loro affermazione o il loro abbandono». Il sublime è anch’esso trascendentale: la natura si presenta come sublime non perché sia sublime in se stessa, infatti se mi trovo non di fronte a un uragano, ma dentro, se mi trovo ad assistere a un’eruzione vulcanica, ma troppo da vicino, questo non mi dà il senso del sublime. Vi ho proposto questo brano perché mi sembra illustrare bene il fatto che l’estetica di Kant è un’estetica antiempirica, non ha niente a che vedere con l’empirico: mi posso trovare di fronte a un’eruzione vulcanica a distanza, senza temerla, e provo il senso del sublime; ma se mi trovo in un luogo minacciato da un’eruzione vulcanica, non lo provo. Il sublime quindi non dipende dall’empirico, dalla cosa, ma dalla proiezione del senso del sublime che il soggetto opera sulla cosa. Ancora la rivoluzione copernicana: il bello, ma anche il sublime, è trascendentale, è una proiezione umana sull’oggetto. Si tratta di un apporto soggettivo e non naturale. «La Natura dunque è detta sublime in questo caso solo perché essa eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’anima può sentire la sublimità della sua destinazione, anche al di sopra della Natura. La sublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animo nostro».
    Abbiamo discusso il giudizio estetico. Segue il giudizio teleologico, cioè il giudizio che permette di rintracciare una finalità negli organismi viventi. Esso si formula soprattutto di fronte alle piante, agli animali, agli organismi che danno l’idea che le parti sono fatte al fine di rendere possibile la vita del tutto. Kant dice a proposito del giudizio teleologico: «La finalità d’un oggetto dato dall’esperienza nel giudizio teleologico riposa su di un principio oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa secondo un concetto di essa che precede e contiene il principio della sua forma». Nel giudizio teleologico c’è un principio oggettivo, c’è una finalità che riguarda l’oggetto, mentre nel giudizio estetico c’era una finalità che riguardava il soggetto osservante, il soggetto contemplatore. Qui invece la finalità è un principio oggettivo che dà l’idea che ci sia un concetto della cosa che precede e contiene il principio della sua forma: sembra che l’animale, il gatto, il cane, la pianta, siano rispondenti a un principio, siano frutto di un progetto, siano stati “fatti apposta”. È chiaro che così si apre la strada alla visione di un architetto della natura che ha inserito finalità all’interno della natura stessa e degli organismi che la popolano. Gli organismi viventi danno l’idea che ci sia stato un architetto che li ha disegnati. «Un organismo vivente ha quella data “conformazione” in quanto alla sua produzione ha presieduto – come fine – il concetto di essa, nel quale era rappresentata la possibilità di quel tutto nel quale dovevano coordinarsi le varie parti [è come se ci fosse stato un progetto, che aveva il fine di dar luogo a quell’organismo, come se esso non fosse un frutto casuale]. Questa finalità, poiché non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggetto nell’apprensione dell’oggetto stesso, ma la riferisce a una determinata conoscenza dell’oggetto sotto un concetto dato, non ha da fare col sentimento di piacere suscitato dall’oggetto». Vuol dire: non c’entra il piacere e quindi l’emozione estetica del soggetto, ma qui si tratta di una finalità interna all’oggetto stesso. Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nella natura c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembrano fatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un finalismo superiore: sembra che tutta la natura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo.
    Sembrerebbe che tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti, organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita dell’uomo e sempre più possibile l’espressione dell’umano. A questo punto Kant delinea un passaggio molto importante: l’espressione dell’umano, la vita dell’uomo, in che cosa consistono? Non nell’empirico e nei bisogni naturali: consistono nella ragione. Sembra che gli organismi viventi contribuiscano a un regno della natura, che sembra fatto apposta per l’uomo, e quindi favoriscano il fine dell’uomo che è il fine razionale, cioè morale. Il finalismo degli organismi biologici si amplia nel finalismo di tutta la natura. La natura sembra fatta al fine di favorire l’esistenza dell’uomo e il dispiegarsi dell’attività dell’uomo, ma l’attività dell’uomo ha il fine della morale, quindi sembrerebbe che la natura sia fatta apposta per agevolare la capacità dell’uomo di inserire fini morali nel suo agire. Kant afferma, con un termine più preciso: «La natura sembra fatta al fine di favorire la cultura». È una frase molto bella che significa che la natura sembra fatta apposta per essere dominata dall’uomo, perché l’uomo possa erigere la civiltà, ma la civiltà implica la creazione di un mondo pienamente umano, cioè di un mondo in cui tutti gli uomini siano rispettati come fini in sé, in cui sia coltivata l’umanità in tutti gli uomini, e quindi si affermi un regno dei fini, in cui ogni uomo si veda riconosciuta la dignità di persona ragionevole, rispettata per la sua razionalità. Nella Critica del giudizio la natura è l’insieme degli organismi biologici che sembra, nel suo insieme, fatta apposta per favorire la vita dell’uomo; la vita dell’uomo è la vita della cultura, cioè della civiltà che cresce sempre di più per permettere all’uomo di esplicare la propria personalità, la propria umanità; ma la propria personalità, la propria umanità, sono il fine morale. Sembra che la natura sia fatta apposta per favorire il fine morale dell’uomo. Il fine morale dell’uomo è il bene; la natura sembra finalizzata al bene.
    A questo punto si chiude la Critica del giudizio e la riconciliazione è avvenuta: la natura all’inizio era deterministica, estranea a fini, adesso la natura, attraverso il giudizio estetico, ma soprattutto attraverso il giudizio teleologico, presenta oggetti, o, addirittura, tutto il suo insieme come rivolti a una finalità, quella di favorire la virtù dell’uomo. L’uomo con la sua morale, la sua libertà, il suo fine del bene, non è più antagonista della natura, che anzi favorisce questo fine. Nell’ultima citazione che vi propongo è come se Kant dicesse: «Guardate, ho fatto tutto questo discorso, ma state attenti, non rinnego una parola di quello che ho detto nella Critica della ragion pura. Il discorso conoscitivo, per me, è chiuso con la Critica della ragion pura. Tutto quello che ho detto nella Critica del giudizio si riferisce a un’aspirazione, a un’esigenza, molto simile in qualche modo ai postulati della ragion pratica, ma non è un che di conoscitivo». «Poiché noi non osserviamo propriamente i fini come vere intenzionalità nella natura, ma aggiungiamo questo concetto col pensiero […] è per noi impossibile dimostrare l’accettabilità d’un tale concetto come oggettivamente valido». Non è un fatto conoscitivo, ma evidentemente la Critica del giudizio apre la strada all’infinito, all’assoluto, alla finalità, alla libertà, cioè, in una parola, non al fenomeno, ma evidentemente all’altra metà della realtà, al noumeno. Kant aveva detto da illuminista: l’uomo è limitato, può conoscere solo il fenomeno. L’Illuminismo è la filosofia del limite dell’uomo: l’uomo è potente perché ha la ragione, ma la ragione, per l’Illuminismo, può conoscere solo le cose finite. Kant ha dato sistemazione a tutta la filosofia illuministica, ha sostenuto: l’uomo con lo strumento potente della ragione può conoscere il finito, ma non può raggiungere il noumeno. L’infinito, l’assoluto, la sfera noumenica sono fuori della portata della ragione umana. Ora, però, nella Critica del giudizio Kant fa affermazioni su finalità e libertà, su elementi quindi che fanno parte della sfera del noumeno, dell’incondizionato, dell’assoluto. E quindi apre la strada al Romanticismo, che è la filosofia dell’assoluto, è la filosofia dell’infinito, è la ribellione ai limiti dell’Illuminismo.
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    QUESTO ARTICOLO è OPERA DI ANTONIO GARGANO

    Critica della ragion pRATICa

    Abbiamo iniziato a parlare di Kant definendolo un Giano bifronte, rivolto da una parte al Settecento, dall’altra all’Ottocento, da una parte al pensiero illuministico, di cui segna il culmine, dall’altra a una cultura diversa, che sarà la cultura romantica. Abbiamo sostenuto: Kant è una figura complessa perché appunto si colloca a cavallo di due secoli, di due culture. A proposito della Critica della ragion pura abbiamo detto che è un’opera di stampo fortemente illuministico, in quanto in essa la ragione non riconosce alcun tribunale più elevato di se stessa, e si mette a giudicare le proprie capacità conoscitive, implicitamente sottolineando che al di sopra di sé, al di sopra della ragione, non c’è nessun’altra autorità. In questo senso, Kant rappresenta il culmine dell’Illuminismo, ma mentre l’Illuminismo si è tenuto fermo a una conoscenza del mondo finito e ha escluso ogni discorso metafisico, Kant, con le tre idee della ragione, manifesta l’esigenza di riappropriarsi di un discorso sull’assoluto, sull’infinito, su Dio, sul destino dell’uomo, avverte quindi l’esigenza di una metafisica, anche se nega la metafisica dal punto di vista conoscitivo. La Critica della ragion pura, che è un bilancio delle facoltà conoscitive umane, giunge all’affermazione che la matematica e la fisica sono scienze in quanto fondate sulle forme a priori, la metafisica, invece, non è una scienza: i tre enti oggetto della metafisica, Dio, anima e mondo, non sono oggetto di intuizione sensibile, di conseguenza su di essi non possono lavorare le categorie e pertanto di essi non si può avere conoscenza. Kant nega la metafisica nel senso tradizionale come tentativo di conoscenza di Dio, anima e mondo, ma ne avverte l’esigenza. Questa esigenza viene da lui ripresa, da tutt’altra angolazione, nella Critica della ragion pratica, che ci conferma pertanto l’impressione di una ambivalenza di Kant: l’appartenenza all’Illuminismo e l’andare oltre.
    L’appartenenza all’Illuminismo la noteremo subito anche nella Critica della ragion pratica , che si fonda su una estrema fiducia nella ragione umana. Kant non pensa di doversi affaticare a dimostrare l’esistenza della ragione nel campo pratico: egli semplicemente afferma che la ragione è di per se stessa anche pratica. La ragione fa sentire la sua voce anche nella sfera dell’azione. Non c’è bisogno di chiedersi il perché: la presenza della ragion pratica va constatata semplicemente come un fatto. La ragione si fa sentire sotto forma di imperativo, quello che il linguaggio comune chiama “voce della coscienza”. Ecco, potremmo dire nel linguaggio corrente: per Kant in ogni uomo c’è la voce della coscienza. Questo fatto non va dimostrato. Kant ne parla come del “fatto” della ragione: qualcosa che dev’essere semplicemente riconosciuto. La presenza della ragione nell’uomo, dal punto di vista pratico, si avverte sotto la forma di imperativi, cioè di comandi che richiedono obbedienza. Su questi imperativi ci soffermeremo. Voglio però far presente subito, ai fini di un inquadramento generale di tutto il discorso, che anche nella sfera pratica la ragione si fa sentire dal punto di vista puramente formale. Nella Critica della ragion pura troviamo esclusivamente un’analisi delle forme trascendentali a priori della ragione: anche qui la ragione non ci dà contenuti. Nella Critica della ragion pura, nella sfera della conoscenza, la ragione ci dà semplicemente la forma: lo spazio, il tempo, le categorie. Il problema dei contenuti non riguarda la filosofia, che si occupa soltanto delle forme. La ragione ci fornisce le forme; i contenuti vengono dall’esterno, se vogliamo, vengono dalla cosa in sé. Nella morale è la stessa cosa: la ragione fa sentire la sua voce, abbiamo detto, ma si fa sentire indicando semplicemente la forma in cui bisogna volere le azioni, mentre i contenuti dell’azione morale sono estremamente vari, sono infiniti, sono offerti dalle più diverse circostanze. Possiamo quindi dire che un elemento di continuità tra la prima e la seconda Critica è questo: in tutt’e due i casi è al centro la ragione puramente formale, nel primo caso essa ci dà la forma del conoscere, ma i contenuti della conoscenza vengono dall’esterno; nel secondo caso ci indica la forma del volere, ma i contenuti del volere, i contenuti dell’azione dipendono dalle circostanze esterne. Stabilito che la ragione può dare soltanto la forma delle azioni morali, da che cosa essa è caratterizzata? La ragione ha una caratteristica fondamentale che le è connaturata: l’universalità. La ragione è la facoltà identica in ogni uomo. Questo ci porterà a considerare l’estremo rigore della morale kantiana, coerente con la sua impostazione fortemente illuministica.
    Gli illuministi sono stati i padri teorici della Rivoluzione francese, che aveva tra le sue parole d’ordine appunto l’uguaglianza. L’uguaglianza scaturisce dalla centralità della ragione. Mentre il sentimento, le passioni, i gusti, sono variabili da individuo a individuo, la ragione è la facoltà presente in maniera identica in ogni individuo. Dalla centralità della ragione scaturisce immediatamente l’universalità, come scaturisce l’uguaglianza. La morale kantiana, quindi, essendo fondata sulla ragione, è una morale che si batte contro quelle che Kant chiama, con termine molto significativo, inclinazioni. I sentimenti, i gusti, le passioni, i desideri sono per Kant inclinazioni. Per questo pensatore, che era molto rigoroso anche nella sua vita privata, bisogna evitare le inclinazioni, che tendono a far deviare dal retto cammino. La ragione, quindi, implicherà una lotta con le inclinazioni, ma implicherà anche l’universalità. Si delinea un’altra analogia con la Critica della ragion pura: ancora una volta Kant recupera l’universalità all’interno della soggettività; in ogni soggetto umano c’è la ragione, e ispirandosi alla ragione l’uomo può trovare la via del corretto comportamento, del comportamento virtuoso, ma ogni altro uomo che si trovi nelle sue condizioni dovrà seguire il suo esempio, se si vorrà comportare in maniera buona, in maniera virtuosa.
    Iniziamo a scorgere le caratteristiche della morale kantiana: essa è fondata sulla ragione e per questo è una morale formale: la ragione ci indica la forma, ma non il contenuto delle azioni morali; essendo fondata esclusivamente sulla ragione, sarà una morale rigoristica, che escluderà le inclinazioni, le passioni, i sentimenti, i desideri, gli istinti dell’uomo; essendo fondata sulla ragione presenta ancora un’altra caratteristica forte, di tipo illuministico: è una morale universale, come universale è la ragione. Tutto questo fa dell’etica kantiana uno dei punti più alti di tutta la tradizione filosofica. Prima di Kant e dopo di Kant troviamo morali di ispirazione diversa, fondate sul cuore, fondate sui sentimenti, e quindi tendenzialmente soggettive, e questa è anche una tendenza prevalente oggi, quando spesso si sostiene che ognuno si deve comportare a proprio arbitrio. Per Kant, invece, il comportamento deve essere ispirato alla propria interiorità, ma non alla propria soggettività in generale: l’uomo è un essere composito, e deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, la quale è in contrasto con le altre tendenze. Un’ulteriore caratteristica della morale kantiana, che scaturisce anch’essa dalla centralità della ragione, è l’autonomia: ritroviamo la ragione in noi stessi, di conseguenza la morale kantiana è una morale della libertà, è una morale autonoma. Obbedendo alla voce della ragione, obbedisco a una voce che trovo all’interno di me stesso, e quindi sono autonomo (dal greco autós, se stesso, e nómos, legge: mi do la legge da me stesso, non ritrovo la legge all’esterno, non sono dipendente da costrizioni esterne, di conseguenza sono libero, in quanto la libertà consiste appunto nell’assenza di costrizioni esterne).
    Avrete notato come, partiti dalla ragione, abbiamo parlato di uguaglianza, di universalità, ora di libertà: emergono due delle tre parole d’ordine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza. Kant si delinea come un pensatore attento alla Rivoluzione francese. Era metodico, faceva sempre la stessa passeggiata per le strade di Königsberg, tanto che si dice che i suoi concittadini regolassero gli orologi sui passaggi del filosofo, il quale una sola volta deviò dal percorso che seguiva ogni giorno, quando, in attesa di un dispaccio sullo sviluppo degli eventi della Rivoluzione, si inoltrò su una strada di campagna per andare incontro al corriere che portava le notizie. Fu l’unica volta che abbandonò il suo percorso abituale. È significativo che Kant abbia aderito agli ideali della Rivoluzione francese. Questo aspetto è stato oggetto di una ricerca approfondita dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: Kant è stato costretto ad autocensurarsi per non incorrere nei rigori della censura prussiana, ma è stato un deciso sostenitore della Rivoluzione francese. Le parole d’ordine della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, sono tutt’e tre presenti nella sua etica. La libertà, per l’autonomia della morale ispirata alla ragione propria di ogni uomo; l’uguaglianza, perché la ragione che ispira il comportamento è una facoltà universale; la fratellanza, che troviamo nella seconda formula dell’imperativo categorico, in cui Kant afferma che bisogna trattare gli altri e se stessi sempre come fini e mai come mezzi, quindi bisogna trattare tutti gli altri alla stessa stregua di noi stessi, come noi stessi, come fratelli.
    Fatta questa premessa sulle caratteristiche principali della morale kantiana, vorrei proporre i brani che ho tratto dalla Critica della ragion pratica e da La metafisica dei costumi, cioè dalle due principali opere morali di Kant. Mi sembra utile iniziare proprio con la forte sottolineatura dell’esistenza del comando razionale. Dice Kant: «Anche se non vi fossero mai state azioni derivate da questa pura sorgente, non si tratta per noi di sapere se è avvenuto questo o quello, ma di sapere che la ragione comanda per sé, ed indipendentemente da tutti i fatti, ciò che deve avvenire; che quindi azioni, delle quali il mondo non ha forse mai ancora offerto il minimo esempio fino ad oggi e la cui stessa possibilità potrebbe essere messa in dubbio da chi tutto fonda sull’esperienza, sono tuttavia comandate inesorabilmente dalla ragione». Questa affermazione è molto importante: qui Kant prende le distanze da ogni empirismo nell’etica. Nell’etica non conta l’essere, cioè i fatti, bensí il dover essere, e questo è dettato dalla ragione. I fatti possono anche andare contro la ragione e quindi contro la morale, ma non tolgono niente alla validità degli imperativi morali. Siamo in una sfera completamente diversa da quella del concreto esistente: l’empiria, la conoscenza sensibile, l’accumulo di fatti. Può anche darsi che nessun uomo sia mai stato leale in tutta la storia dell’umanità, e quindi che non si possa qualificare neppure un individuo come leale, ma la lealtà è sicuramente un altissimo valore morale; anche se i fatti negassero che sia mai esistito un sol uomo leale, la lealtà varrebbe ugualmente di per sé. Questo appunto afferma Kant nella prosecuzione del brano: «Per esempio la pura lealtà nell’amicizia non è meno obbligatoria per ciascuno, anche se non vi fosse mai stato un amico leale sino al presente, perché questo dovere è implicito, come tale, anteriormente ad ogni esperienza nell’idea d’una ragione che determina la volontà secondo principii a priori. La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto esso costringe la volontà, si chiama un comando (della ragione), e la formula del comando si chiama imperativo». Notate che il linguaggio è asciutto, direi drastico, quello che interessa a Kant è di fondare una morale ancorata nel soggetto, ma insieme oggettiva e quindi universale. Devo agire ispirandomi alla mia ragione, ma essa è uguale alla ragione di tutti gli altri, pertanto, se veramente starò seguendo la ragione, starò identificando un principio oggettivo universale, cioè un principio che tutti devono riconoscere, che tutti gli altri devono seguire. Nella mia interiorità, nella mia soggettività (soggettività sotto forma di ragione), trovo l’universale, come abbiamo già detto a proposito della conoscenza. «Tutti gli imperativi sono espressi con la parola dovere, ed indicano con questo la relazione tra una legge oggettiva della ragione e una volontà che, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». In queste due righe è racchiusa tutta la drammaticità della morale kantiana: la legge del dovere è una legge ogget-tiva, però, «…la volontà, secondo la sua costituzione soggettiva, non è necessariamente determinata da questa legge». C’è una lotta tra la volontà e il dovere, tra la volontà e l’imperativo, tra la volontà e la ragione. La ragione indica inesorabilmente il dovere, qualcosa di universale e di oggettivo, ma non è detto che la volontà si pieghi con scioltezza a seguire l’imperativo della ragione, perché la volontà, che è un’altra facoltà umana, può anche seguire la voce del piacere, la voce del desiderio, la voce della ricerca di felicità, la voce di interessi, di istinti; c’è una continua lotta all’interno dell’uomo, di ogni uomo. L’uomo è un fascio di forze, è complesso. La ragione deve avere la prevalenza, ma ci sono anche altre facoltà che tirano da altre parti, le inclinazioni. Si può pensare al grande modello classico di Platone. Ricorderete che Platone paragona l’anima a una biga alata: c’è l’auriga, la ragione che deve guidare il corso dell’esistenza, ma ci sono anche i cavalli bianco e nero che tirano in altre direzioni. I cavalli del mito platonico simboleggiano passioni e istinti. Kant si rifà al modello platonico: l’uomo non è monolitico, non è tutto di un pezzo, si potrebbe dire, bensí un fascio di forze che vanno in direzioni diverse. La ragione deve prendere il comando di queste forze. Nell’espressione che usa a questo proposito, Kant è estremamente rigido. Questo si spiega con la sua formazione, con la sua nascita prussiana, con la sua estrazione religiosa di stampo protestante radicale (Kant è nato in una famiglia pietista). Il protestantesimo per sua natura è già una confessione religiosa che dà spazio al rigorismo etico. È importante che lo sottolineiamo per capire bene la genesi della posizione di Kant. Per Kant, in quanto protestante, in quanto pietista, l’uomo nasce afflitto dal “male radicale”, dal peccato originale, come aveva predicato Lutero. Questo aspetto dell’etica protestante viene esasperato da Kant: l’uomo ha un male radicale, alla sua radice c’è qualche cosa che lo inquina, tende a farlo deviare, tende a farlo divergere dalla retta strada. Al contrario di Rousseau, Kant propone una concezione pessimistica dell’uomo. Avendo una natura debole, corrotta, l’uomo deve fare un enorme sforzo per imporsi la virtù; ci vuole un grande rigore morale per raddrizzare, come lui dice, questo fuscello che tende a crescere distorto. Egli riprende la dottrina luterana secondo cui l’uomo è macchiato dal peccato originale, e questa macchia gli impedisce di condurre spontaneamente una vita morale. Per essere buono, l’uomo non può seguire la propria spontaneità, ma deve combattere con se stesso, deve fare uno sforzo su se stesso.
    La filosofia romantica e la letteratura romantica tedesca, che rivalutano anche gli aspetti sentimentali e emotivi, criticheranno Kant a questo proposito. Schiller, il grande poeta romantico, ironizza sulla morale kantiana dicendo che essa consiste nel dover fare quello che uno non vorrebbe fare. Che cosa vuol dire con questo Schiller? Che Kant intende la morale in maniera drammatica, come una lotta continua dell’uomo con se stesso. A questa morale cupa Schiller e il Romanticismo contrapporranno la morale dell’“anima bella”. Per Schiller l’uomo deve armo- nizzare le passioni con la ragione e, secondo l’ideale greco, deve essere un tutt’uno armonioso in cui non ci deve essere una parte che prende la guida in maniera drastica soffocando altre parti anche nobili dell’uomo; i sentimenti vanno elevati e vanno fusi con la ragione fino a che, dice Schiller, il comportamento buono, il comportamento virtuoso, diventi qualche cosa di spontaneo. Per i Romantici, per Schiller, l’uomo deve avere una grazia e una dignità spontanee, deve agire bene non perché dominato da una specie di poliziotto interno, di autorità interiore che continuamente lo fustiga e lo spinge, ma deve agire virtuosamente perché perfettamente armonizzato tra sentimento e ragione; l’individuo, educato alla bellezza, agisce bene spontaneamente, segue la virtù senza costrizione; è persona elegante, mite, aperta verso l’altro non perché si deve continuamente forzare ad essere così, ad essere altruista, ma è altruista perché è riuscito ad armonizzare le sue facoltà e si comporta spontaneamente e naturalmente in maniera morale. In Kant invece c’è una concezione fortemente antagonistica, drammatica: l’uomo deve combattere continuamente contro le inclinazioni, la volontà di sua natura tende a recepire anche altri contenuti oltre il bene indicato dalla ragione.
    La ragione, dicevamo, si fa sentire sotto forma di imperativi. «Se gli imperativi sono condizionati, se cioè determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto in vista di un effetto desiderato, sono imperativi ipotetici. – Gl’imperativi ipotetici rappresentano la necessità pratica di un’azione possibile come mezzo per qualche altra cosa che si vuole (o almeno è possibile si voglia) conseguire». Gli imperativi non hanno tutti lo stesso valore: vi sono gli imperativi ipotetici e l’imperativo categorico. Quello che ci riguarda dal punto di vista morale è l’imperativo categorico; gli imperativi ipotetici non sono imperativi morali, ma solo pratici. Stiamo parlando di un’opera che si chiama Critica della ragion pratica, che tratta di tutto l’agire: solo una parte delle azioni dell’uomo riguardano il bene, e sono le azioni morali poste sotto l’egida dell’imperativo categorico, ma la maggior parte delle azioni sono moralmente neutre e sono soggette agli imperativi ipotetici. Kant distingue gli imperativi ipotetici in due specie: gli imperativi dell’abilità e quelli della prudenza. Gli imperativi dell’abilità sono quelli che implicano di usare un certo strumento per raggiungere uno scopo, gli esempi possono essere tanti e sono banalissimi: se voglio scrivere, devo usare la penna, se voglio andare a Roma, devo prendere un treno. È chiaro che c’è un’ipotesi che subordina l’imperativo “devo usare la penna”, e cioè l’ipotesi che io voglia scrivere. Questi imperativi riguardano soltanto gli strumenti, i mezzi. Gli imperativi puramente tecnici, dell’abilità, gli imperativi ipotetici sono quelli che dominano la vita pratica di oggi. Sono convinto che Kant può essere molto utile per smascherare i limiti del modo di vivere impostoci dalla società dei consumi, in quanto egli considera il piano degli strumenti insignificante e subordinato. Per Kant quello che conta è “il regno dei fini”. Oggi per lo più, anche fra i giovani, non si pone mai il problema del fine e del significato di ciò che si vuole conseguire. Viviamo in una civiltà fondata sulla razionalità strumentale: ci sono formidabili strumenti tecnici per poter raggiungere fini che però non vengono posti in discussione. La nostra è una società in cui viene evitato il discorso razionale sui fini, sul perché bisogna vivere in un certo modo, su quali dovranno essere le finalità dell’esistenza, su quali dovranno essere le finalità dell’umanità in grande. Per Kant invece tutto è orientato verso il fine dell’uomo. Il fine dell’uomo è quello dell’autoperfezionarsi, cioè di migliorare la propria umanità. L’organizzazione del mondo contemporaneo in questo ha sconfitto Kant: gli uomini non si pongono il problema dei fini, e nei loro rapporti reciproci si usano come strumenti, vige una strumentalizzazione continua degli altri, e siamo spinti anche a una strumentalizzazione di noi stessi. Il prossimo non viene visto nella sua dignità di altro essere umano che ha la stessa possibilità di porsi fini che ho io; l’altro è semplicemente uno strumento. In questo senso è stato detto che la vittoria nella società contemporanea non è stata di Kant e della Critica della ragion pratica, ma di un avversario molto sottile di Kant, il marchese de Sade. Il marchese de Sade, da cui viene il termine che indica la patologia psicologica del sadismo, il godere nel fare del male agli altri, non era semplicemente un personaggio cinico, ma anche un pensatore sottile, e in alcune sue opere si è divertito a capovolgere la morale kantiana. Questa è orientata sul fatto che l’uomo deve essere sempre considerato come un fine in sé, l’uomo ha una sua dignità che gli viene dal fatto di essere dotato di ragione: ogni uomo deve essere rispettato come un valore in sé. Invece Sade argomenta il contrario: ogni uomo è uno strumento, ogni uomo ha valore soltanto in quanto mi serve per qualche cosa, se non mi serve a niente lo posso anche sopprimere, o lo posso sopprimere perché mi è utile sopprimerlo, ma in ogni caso l’altro è sempre uno strumento. Nel nostro secolo la Scuola di Francoforte ha rilevato che, per certi aspetti, la vittoria nel mondo contemporaneo non è stata della morale kantiana, ma della morale antagonista a quella di Kant, la morale del marchese de Sade. Nel nazismo, nei grandi fenomeni bellici della nostra epoca, e non solo in questi, i nemici, gli altri, sono semplicemente strumenti, non c’è rispetto dell’altro in quanto altro essere umano: l’altro essere umano è considerato come un oggetto da utilizzare. Molti fenomeni della nostra epoca si potrebbero mettere sotto l’egida di Sade, come ha fatto anche con molta acutezza Pierpaolo Pasolini, il grande scrittore e regista italiano scomparso tragicamente. Viviamo in una civiltà in cui sono seguiti solo gli imperativi ipotetici, cioè gli imperativi che ci indicano gli strumenti per raggiungere un fine, la validità del fine non viene messa in discussione.
    Continuiamo a leggere Kant: «Tutte le scienze hanno una parte pratica, che si compone di proposizioni in cui si afferma che qualche fine è possibile per noi, e d’imperativi che indicano come quel fine possa essere conseguito. Questi possono perciò chiamarsi in generale imperativi dell’abilità. Le prescrizioni che segue il medico, per guarire radicalmente il suo malato, e quelle che segue l’avvelenatore per uccidere un uomo con certezza, sono di egual valore in questo senso, che le une e le altre servono ad attuare pienamente il loro scopo». Questo esempio fa capire bene la neutralità morale dell’imperativo ipotetico: il medico cha ha un fine buono, quello di guarire, e un avvelenatore che ha un fine cattivo, quello di uccidere, dal punto di vista dell’imperativo ipotetico sono equivalenti, l’uno e l’altro si porranno il problema di qual è lo strumento più adatto per il loro scopo. L’imperativo ipotetico è neutro dal punto di vista morale.
    «Vi è d’altra parte uno scopo, che si può supporre come reale in tutti gli esseri ragionevoli (in quanto si applicano ad essi degli imperativi, in quanto sono cioè esseri dipendenti), uno scopo quindi che non soltanto essi possono proporsi, ma di cui si può con tutta sicurezza supporre che essi se lo propongono tutti effettivamente per una necessità naturale, e questo scopo è la felicità. E si può dare il nome di prudenza nel senso più stretto della parola all’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo benessere». Questo è il secondo e ultimo tipo di imperativo ipotetico: l’imperativo della prudenza. Kant sostiene che tutti gli uomini tendono al loro benessere, alla loro felicità, e quindi ci saranno imperativi che riguardano la ricerca della felicità, il perseguimento di questo fine, ma egli nega a questi imperativi il valore supremo di imperativi assoluti. «Per esempio dite a qualcuno ch’egli deve lavorare e risparmiare in gioventù, per non soffrire stenti nella vecchiaia: questo è, certo, per la volontà un precetto giusto e anche importante. Ma è facile vedere che la volontà qui è rinviata a qualche altra cosa, di cui si suppone ch’essa la desideri; e questo desiderio dev’essere lasciato all’arbitrio dell’agente stesso, sia che egli preveda altre risorse all’infuori di quelle che gli derivano dalle ricchezze già acquistate, sia che non speri di diventar vecchio, sia che pensi di rassegnarsi un giorno, in caso di bisogno, a sbarcare il lunario alla peggio». Kant voleva dire questo: l’imperativo della felicità, del benessere personale, in fondo è un imperativo soggettivo, non si può pretendere di elevarlo a imperativo universale valido per tutti gli uomini; tutti ricercano il proprio benessere, ma ognuno a modo suo, è un fatto decisamente limitato alla persona, alla soggettività in senso individuale. «La ragione, che sola può fornire regole implicanti la necessità, dà certo carattere di necessità anche a questo suo precetto (se no, non sarebbe imperativo); ma tal necessità è soltanto soggettivamente condizionata e non può esser supposta in egual grado in tutti i soggetti». Ognuno cerca questa felicità a modo suo, quindi gli imperativi della prudenza sono imperativi soggettivi, non siamo ancora alla sfera morale, alla sfera razionale universale che è solo dell’imperativo categorico. Continuiamo a leggere: «È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa…». Che vuole dire? Quando l’uomo vuole la felicità, vuole il benessere, in fondo vuole qualcosa di esterno, non è ancora il volere la ragione per la ragione, cioè il bene identificato dalla ragione per il bene. Per Kant, invece, l’autonomia della morale consiste proprio in questo: che si vuole qualche cosa di interiore che non rinvia ad altro, il bene per il bene, la ragione per la ragione, non si vuole qualche cosa per qualcos’altro, ma perché è un bene in se stesso. Per la mia felicità posso desiderare, per esempio, di accumulare una somma di denaro, oppure di procurarmi la salute fisica, ma allora desidererò la salute fisica per essere felice, il denaro per essere felice, cioè un mezzo per qualche cosa di altro, invece il bene, il vero bene morale, è fine in sé, non è uno strumento per raggiungere un fine che sta fuori, che sta oltre. Il vero bene morale, la vera virtù, è premio a se stessa, è fine a se stessa, non è uno strumento per qualche cosa d’altro.
    «… È proprio della legislazione della ragione questo, di non esigere che sia supposto altro che se stessa, perché la regola può valere oggettivamente e universalmente, solo se si afferma indipendentemente da quelle condizioni contingenti e soggettive, che distinguono un essere ragionevole da un altro. Si ha allora l’imperativo categorico, che comanda immediatamente una certa condotta, senza assumere a principio come condizione un altro scopo da conseguire mediante quella condotta». La caratteristica dell’imperativo categorico è di essere fine a se stesso, non mezzo per arrivare a qualche fine esterno. È fine in sé. Arriviamo alla famosa prima formula dell’imperativo. L’imperativo categorico è solo uno; infatti esso consisterà nell’applicare la forma della razionalità a tutte le azioni. Quale sarà la forma della razionalità? L’universalità. Agire moralmente che cosa vorrà dire? Agire secondo ragione. Ma agire secondo ragione, significa agire in maniera universale, agire in modo che chiunque altro al posto mio per agire moralmente debba fare la stessa cosa che ho fatto io. Bisogna agire in modo che la massima della propria azione (per massima s’intende il principio soggettivo specifico, la regola estraibile dal comportamento specifico) possa valere come legge universale. In altri termini, la prima formula dell’imperativo categorico implica questo: il procedimento che sto seguendo, che Kant chiama massima, il modo come potrei definire l’azione che sto facendo, posso pretendere che debba valere per legge universale, cioè che non debba valere solo per me in questa circostanza, ma per qualunque altro essere umano si trovi in circostanze analoghe. Devo poter essere sicuro che la regola, che sto seguendo implicitamente anche se non me ne accorgo, possa valere come regola universale, cioè che qualunque essere umano, per essere veramente morale, cioè razionale, la debba seguire. Si tratta di una morale fortemente improntata all’universalità. Ora dalle varie formule dell’imperativo cerchiamo di capire meglio in che cosa consiste questa universalità.
    La prima formula dice: «Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale»; c’è una accentuazione della universalità oggettiva: quello che fai deve valere come legge universale. Nella seconda formula dell’imperativo categorico è presente invece una accentuazione della universalità soggettiva: siamo sempre all’interno dell’universalità, ma lo stesso imperativo viene riformulato dal punto di vista del soggetto che si pone un fine. Infatti Kant dice: «Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo». Questa è la trasposizione filosofica del comandamento cristiano secondo il quale, appunto, bisogna non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi, o, meglio, si deve fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a se stessi. L’altro ha la stessa dignità mia, dev’essere considerato non strumento, ma fine, come io considero me stesso un fine: tutti gli uomini hanno pari dignità, perché tutti gli uomini sono ugualmente dotati di ragione. “Ama il prossimo tuo come te stesso”: tu sei un fine, ti consideri e ti devi trattare come un fine, non ti devi mai abbassare a essere strumento e non devi mai usare un altro. Dice Kant: «L’imperativo pratico è formulabile nel modo seguente: Agisci in modo da trattare sempre l’umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo. Il principio: – agisci riguardo a ogni essere ragionevole (a te e agli altri) in modo che nella tua massima esso valga sempre come fine in se stesso, è in fondo identico a quest’altro: – agisci secondo una massima che contenga nello stesso tempo in sé la possibilità di valere universalmente per tutti gli esseri ragionevoli. Infatti, dire che io nell’uso dei mezzi per qualsiasi fine debbo sottoporre la mia massima a questa condizione restrittiva che essa possa valere universalmente come una legge per ogni soggetto, è lo stesso che dire: il soggetto dei fini, cioè l’essere ragionevole stesso deve servire di principio a tutte le massime delle azioni non mai semplicemente come mezzo, ma come suprema condizione limitativa nell’uso di tutti i mezzi, ossia sempre nello stesso tempo come un fine». Qui il linguaggio può sembrare complesso, ma in queste parole c’è un insegnamento semplice e grandioso: l’unico fine che l’uomo si può porre è l’uomo stesso. Non c’è nessun fine superiore all’uomo. In questo senso, Kant si rivela un continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo della civiltà europea moderna: l’uomo è l’essere dotato di maggiore dignità possibile, e il fine di tutte le azioni umane deve essere appunto l’uomo stesso, cioè il rispetto dell’essenza dell’uomo e il perfezionamento dell’umanità.
    La terza formula è una sintesi delle prime due: la prima era sbilanciata sull’oggettivo; la seconda sul soggettivo; la terza dice: «Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale». La volontà, che è qualcosa di soggettivo, deve valere come qualche cosa di universale, cioè di oggettivo. Nella terza formula, che è la più sintetica, la più chiara di tutte, il piano soggettivo universale e il piano oggettivo universale sono pienamente fusi. La volontà del singolo deve diventare legislatrice universale. Oggi non è facile comprendere questa affermazione perché per volontà, per singolo, per individuo, nel mondo contemporaneo si intende qualche cosa che è agli antipodi rispetto a Kant, cioè si intende l’arbitrio soggettivo. Si pensa che l’individuo debba poter agire nel modo che crede, fare le cose che crede, ecc. Invece per Kant affidare tutto all’individuo non significa affidare tutto all’arbitrio, bensí affidare tutto alla parte più nobile dell’individuo e cioè alla ragione. In questa prospettiva, l’individuo coincide nei suoi punti di riferimento essenziali con gli altri individui. Oggi riferirsi alla volontà di una persona significa riferirsi a qualche cosa di assolutamente arbitrario, che varia da individuo a individuo, invece la volontà con la “V” maiuscola che si è appropriata dei contenuti della ragione per Kant è come l’Io penso, cioè vale per tutti gli uomini, è un qualche cosa di soggettivo ma di universale contemporaneamente. La posizione etica di Kant si spiega anche col fatto che egli vive nel periodo entusiasmante della Rivoluzione francese, in cui la borghesia europea spera di poter portare la liberazione e la fratellanza a tutta l’umanità. Kant è un grande filosofo dell’epoca della Rivoluzione francese. Spera che il comportamento di ognuno si possa armonizzare col comportamento di tutti gli altri in nome della ragione. Viviamo oggi in un’epoca in cui le parole d’ordine più avanzate della Rivoluzione francese sono state sconfitte. Dopo Kant hanno preso il sopravvento le tendenze più individualistiche. Per esempio già Schopenhauer ride di Kant, e si affida a una morale emozionale puramente individuale. Dopo Kant, dopo l’idealismo soprattutto, inizia una fase di decadenza che porta l’individuo a scostarsi dall’universale, e oggi “individuo” coincide con “arbitrio”, mentre per Kant “individuo” coincide con “ragione” e con “universalità”, e questo si spiega con la grande speranza che gli ideali rivoluzionari, libertà, uguaglianza, fratellanza, possano veramente unire tutta l’umanità e portarla in un’epoca nuova.
    «Il fondamento, dunque, di ogni legislazione pratica risiede oggettivamente nella regola o nella forma dell’universalità, che (secondo il primo principio), la rende capace di essere una legge; e soggettivamente nel fine. Ma il soggetto di tutti i fini è (conforme al secondo principio) l’essere ragionevole come fine in sé. Da ciò risulta il terzo principio pratico del volere, come condizione suprema della sua conformità con la ragion pratica universale: cioè: [agisci secondo] l’idea della volontà di ogni essere ragionevole come legislatrice universale. Io chiamo questo principio il principio dell’autonomia della volontà, in opposizione ad ogni altro, che per questo io riferisco all’eteronomia». Qui Kant fonda il concetto dell’autonomia della sua morale. Autonomia in due sensi: autonomia significa libertà; la ragione è un contenuto interiore, e l’uomo che dipende dalla ragione dipende solo da se stesso. Kant contrappone la sua posizione all’eteronomia, cioè al dipendere non da sé ma da altro. Ma Kant in quello che considera “altro” fa rientrare per esempio anche il piacere, la sensibilità, la paura di un castigo eterno, ecc. Se invece di agire in base alla ragione si agisce in base al piacere, per Kant si sta agendo non in base alla propria libertà e autonomia; se si sta agendo in base al piacere si finisce con l’essere in qualche modo schiavi del piacere e cioè si è eteronomi, non autonomi. Anche se il piacere è qualche cosa che può essere molto personale, per Kant questo qualche cosa ci porta a dipendere da altro da noi; così se dipendo da emozioni come la paura, eccetera, sono soggetto a qualche cosa di esterno. Per Kant non bisogna dipendere dalle emozioni, non bisogna dipendere dal piacere, ma, per essere liberi, bisogna farsi guidare esclusivamente dalla ragione. Si può pensare a un esempio estremo: consumare droga può portare piacere, ma significa dipendere da qualche cosa di esterno, cioè far venire meno la propria libertà. È chiaro che dal punto di vista della morale kantiana l’assunzione di droga è una forma forte di subordinazione all’esterno e quindi implica rinuncia alla libertà. Drogarsi non implica autonomia, bensí eteronomia. “Autonomia” anche in un altro senso, più semplice: le morali che noi conosciamo per lo più sono morali eteronome, in cui il precetto morale viene dall’esterno, viene da una chiesa, viene da un’autorità, viene da un profeta, viene da un libro sacro. L’autonomia della morale kantiana invece implica che la legge morale si ritrova dentro l’uomo, non in un libro sacro, in una setta, in una gerarchia ecclesiastica, in un precetto che viene dall’esterno.
    Consideriamo ora un altro punto decisivo: l’intenzionalità della morale. «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi… », si delinea un altro tema importante: non è detto che l’agire morale abbia successo, anzi l’uomo morale è spesso sconfitto. Posso tentare un’azione buona e essere impedito di attuarla, ma ciò non toglie niente alla mia bontà: basta avere l’intenzione buona. La morale kantiana è una morale decisamente intenzionale. Che cosa significa? Per essere buono, devo fare in modo che la mia volontà aderisca all’imperativo della ragione, ma si tratta di un’operazione tutta interna, perché la volontà è qualche cosa di interiore, la ragione pure è qualche cosa di interiore, e l’esterno è fuori gioco. Per essere buono devo far aderire la mia volontà all’imperativo dettato dalla mia ragione, se poi le condizioni esterne mi impediscono di agire bene, questo nulla toglie alla mia virtù. Se, per esempio, voglio aiutare una persona che è strangolata da un usuraio, ma non ho i capitali per liberarla, questo non toglie niente alla mia bontà: l’importante è che io voglia aderire all’imperativo della ragione. Oppure posso essere ammalato, posso essere in un momento di debolezza fisica, non riesco a impedire, per esempio, che una persona si faccia male, oppure che sia aggredita, vorrei evitarlo, ma sono bloccato dalla debolezza, dalla malattia, ecc., allora, anche se non riesco a realizzare l’intenzione, l’importante è che io abbia voluto che ci fosse una corrispondenza tra l’imperativo morale, tra l’imperativo categorico come si configurava in quel momento, e la mia volontà.
    È opportuno a questo punto ribadire che l’imperativo categorico è uno solo: agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come legge universale. Le massime delle azioni non dipendono dai contenuti, abbiamo detto, quei famosi contenuti che sono esterni a noi e possono essere infiniti. Quindi la morale di Kant serve di orientamento in qualunque circostanza, in qualunque epoca storica, in qualunque situazione. L’importante è che in ogni circostanza io cerchi di comportarmi come secondo me si dovrebbe comportare ogni altro essere umano che usi la ragione. I contenuti possono essere, anzi, sono senz’altro infiniti; possono variare da circostanza a circostanza, ma ho una specie di bussola per orientarmi da me in ogni singola situazione. In questo senso Kant si può paragonare a Socrate. Socrate ripeteva: «Conosci te stesso», non dava una regola morale, ma spingeva ciascuno a cercarla in se stesso. Così la morale di Kant non detta contenuti di azioni morali: i contenuti sono vari e ognuno si orienta in base alle circostanze con la propria bussola interiore, con la propria ragione. Ora torniamo però all’intenzionalità. Dice Kant: «La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, né della sua attitudine a conseguire questo o quello scopo proposto, ma soltanto per il volere, ossia per se stessa; e, considerata per sé sola, dev’essere stimata senza paragone superiore a tutto ciò che si può fare per mezzo di essa in favore di qualche inclinazione o anche, se si vuole, in favore della somma di tutte le inclinazioni. Quando pure per una speciale avversità della sorte o per l’avarizia d’una natura matrigna venisse a mancare a questa volontà ogni mezzo per attuare i suoi disegni; quand’anche essa non ricavasse nulla dai suoi più intensi sforzi; quand’anche non dovesse rimanere che la sola buona volontà (e s’intende che questa non è semplice velleità, ma implica l’uso di tutti i mezzi che sono a nostra disposizione) [questa volontà non deve rimanere astratta: fino a dove posso arrivare con le mie forze ci devo arrivare; posso non avere i soldi per aiutare la persona in difficoltà, posso non avere le forze per aiutare la persona aggredita, ma devo usare tutte le mie forze fino a dove arrivano], essa brillerebbe tuttavia per sé stessa, come una pietra preziosa, poiché trae da sé medesima tutto il suo valore». La volontà buona vale per sé e non per il successo esterno, perché il successo esterno è un fatto di contenuto, del mondo esteriore. «L’utilità o inutilità sua non può nulla aggiungere e nulla togliere al suo valore. L’utilità sarebbe soltanto come una incastonatura del gioiello, che può renderlo più maneggevole negli scambi o attirare su di esso l’attenzione di coloro che non sono ancora esperti conoscitori, non già raccomandarlo agli inten- ditori e determinarne il valore»: il successo dell’azione è la montatura che rende più bello il gioiello, ma il gioiello è la pura volontà.
    Anche l’intenzionalità risale in ultima analisi alla formazione protestante di Kant. La grande polemica che ha portato alla riforma di Lutero è centrata su questo: non ci si salva per opere, ma per fede. Quello che conta per Lutero è il puro fatto intenzionale, cioè l’amare Dio, l’affidarsi fiduciosi alla grazia divina; tutte le opere, le opere buone, peggio ancora naturalmente per Lutero se erano trasformate in indulgenze, non valgono a niente. Nel fare queste affermazioni Kant rivela la sua natura di protestante: per il protestantesimo, ripeto, le opere non contano: quello che salva, quello che rende virtuosi è la fiducia in Dio. Questa concezione trapassa in Kant: il fatto che l’azione morale abbia successo pratico è una montatura aggiuntiva al gioiello, ma non ha un valore sostanziale. Ciò che conta è l’intenzione della retta coscienza, l’intenzione della volontà buona.
    «La dignità del dovere non ha nulla che fare con le gioie della vita; essa ha la sua propria legge, essa ha anche il suo proprio tribunale…». Viene respinta ogni forma di eudemonismo. L’eudemonismo è una visione ottimistica per cui la virtù e la felicità coincidono: l’uomo virtuoso è anche un uomo felice, se non altro perché è in pace con se stesso. Per Kant invece l’eudemonismo non vale e la virtù può anche non essere ricompensata: per condurre una vita virtuosa si può anche soffrire, si può anche procedere di rinuncia in rinuncia, non c’è conciliazione di virtù e felicità. In proposito Kant è drastico: «Un uomo onesto, colpito da una grande sventura ch’egli avrebbe potuto evitare se avesse voluto trascurare il proprio dovere, non è ancora sostenuto dalla coscienza di aver mantenuto e rispettato nella sua persona la dignità umana, di non aver da arrossire di se stesso o da temere lo sguardo interno del proprio esame? Questa soddisfazione non è la felicità, senza dubbio, non ne è neanche una minima parte. Nessuno infatti s’augurerebbe di aver occasione di provarla, e forse neanche desidererebbe la vita in tali condizioni. Ma egli vive e non può sopportare di essere innanzi ai propri occhi indegno della vita. Quella soddisfazione è l’effetto d’un rispetto per qualcosa di ben diverso dalla vita, e al cui confronto anzi la vita con tutte le sue gioie non ha proprio alcun valore. Quell’uomo vive ormai solo per dovere, e non perché provi il minimo gusto della vita». Si respinge anche l’ipotesi di avere un gusto per la vita, ma in questo tipo di possibilità Kant vede la grandezza dell’uomo. L’uomo, a prescindere dal gusto per la vita, si può dedicare a grandissimi ideali che lo trascendono completamente, non lo riguardano nella sua persona, e per questo testimoniano del suo destino morale, della sua capacità di sganciarsi dal piano banale, empirico. Si può rinunciare alle gioie della vita, ma si prova intima soddisfazione per fatti completamente sganciati dalla propria corporeità. E Kant si conforta quando nota che tanta parte dell’Europa partecipa con slancio agli entusiasmi della Rivoluzione francese: questa, dice lui, è una testimonianza del destino morale dell’uomo, in quanto si tratta di un trasporto per cose che non portano nessun vantaggio personale e nessuna gioia personale.
    Continuiamo a leggere Kant: «Se la determinazione della volontà ha luogo conforme alla legge morale, ma solo mediante un sentimento, di qualunque specie questo sia, che dev’essere presupposto perché la volontà abbia un sufficiente motivo di determinazione, e se quindi essa non si determina per la legge, allora l’azione avrà un carattere di legalità, ma non di moralità». Si delinea l’ultima caratteristica che voglio sottolineare della morale kantiana: essa è una morale estremamente rigorosa, o, meglio, rigoristica. Che cosa significa questo? L’uomo buono deve agire bene per amore del bene. Punto e basta. Se agisce per ossequio alla legge, per un motivo esteriore, allora sta agendo per legalismo, ma non per moralità. La volontà buona deve seguire l’imperativo categorico solo perché lo trova razionale, non per altri motivi. Due azioni possono essere tutt’e due ispirate alla legge, ma possono non essere tutt’e due morali. Perché un’azione sia morale deve essere compiuta con la propria intima adesione, con la propria intima convinzione. Ricorriamo a un esempio: in una stessa situazione due individui possono non uccidere un altro, non uccidere qualcuno che li stava aggredendo, ma uno lo fa per una partecipazione all’imperativo categorico, l’altro per timore della legge, perché pensa che possa essere incolpato per eccesso di legittima difesa. Tutti e due hanno agito secondo legalità, perché tutti e due non hanno proceduto a rispondere in maniera esagerata all’aggressione, ma uno ha agito moralmente, perché era intimamente convinto e seguiva il dettame dell’imperativo categorico, l’altro agiva soltanto per paura di incorrere in una pena e quindi agiva legalmente, ma non moralmente. Ci può essere una divaricazione tra legalità e moralità. «Conservare, ad esempio la propria vita è un dovere, e inoltre cosa per cui ognuno ha un’inclinazione immediata. Ora appunto per questo la cura spesso angosciosa che la maggior parte degli uomini vi dedica non ha nessun valore interiore, e la loro massima non ha nessun contenuto morale». È spontaneo salvare la propria esistenza. Questo fatto, pur corrispondendo a una legge morale che implica la salvezza di noi stessi, l’integrità del nostro corpo, per lo più non comporta un atteggiamento morale. Si bada al proprio corpo, alla propria salvezza, ma non per seguire un imperativo; lo si fa spontaneamente per un istinto di sopravvivenza. Esteriormente ci si sta comportando secondo un principio morale, ma, siccome non si sta aderendo intimamente a un imperativo categorico, non si sta agendo moralmente. «Essi conservano la loro vita conforme al dovere, ma non per dovere», cioè stanno seguendo legalmente la norma per cui non ci si deve uccidere, si deve badare al benessere del proprio corpo, ma lo stanno facendo in maniera conforme al dovere, non perché lo sentano come un dovere. «Invece se delle sventure o un dolore senza speranza hanno tolto ad un uomo ogni gusto per la vita, se questo infelice, forte d’animo, e più irritato della sua sorte che non abbattuto o scoraggiato, desidera la morte e tuttavia conserva la vita, senza amarla, e non per inclinazione o per timore, ma per dovere, allora la sua massima avrà un contenuto morale». Se uno conserva la propria esistenza in condizioni normali non si accorge che sta aderendo anche a un imperativo morale, quello di mantenersi in vita; sta agendo automaticamente, per legalità, ma non per moralità, non sta rendendosi conto che deve aver cura di sé anche per un dovere morale. Quando però, per seguire l’esempio drammatico di Kant, un uomo è gravemente ammalato, è arrivato a un punto per cui sarebbe portato a odiare la vita, eppure continua a mantenersi in vita, allora scatta la norma dell’imperativo per cui si mantiene in vita non per un automatismo vegetale, ma per una scelta morale.
    Veniamo ora alla parte finale della Critica della ragion pratica, quella in cui Kant ha fondato il primato della ragion pratica sulla ragion pura. Mentre nella prima Critica Kant tiene una posizione agnostica, cioè dice non si può conoscere niente di Dio e dell’anima, in quanto le categorie dell’intelletto si applicano solo ai materiali dell’intuizione, invece nella Critica della ragion pratica egli giunge a Dio e all’immortalità dell’anima, ma per una via che non è conoscitiva, è una via diversa; quella dell’esigenza dell’uomo morale. Questa esigenza si esprime con postulati. Il termine è preso della geometria; i postulati sono punti di partenza indispensabili per le dimostrazioni, ma non si possono a loro volta dimostrare. Si devono ammettere per veri, e in qualche modo se ne avverte la verità perché attraverso di essi si possono dimostrare tante altre cose, ma non si possono dimostrare essi stessi come veri. Ora, Kant nella Critica della ragion pratica arriva alla libertà, all’immortalità dell’anima e a Dio, come postulati morali, cioè come esigenze ineliminabili per la vita morale, come i postulati geometrici sono esigenze ineliminabili per la geometria perché se non si parte da essi le catene di teoremi non si possono sviluppare. Il ragionamento di Kant è questo: è vero che non si possono dimostrare, ma se attraverso di essi si possono dimostrare tante altre verità, indirettamente si può dire che sono veri anche i postulati in geometria, e lo stesso vale anche nella morale.
    Il primo postulato è quello della libertà. Nella Critica della ragion pura non abbiamo trovato la libertà dell’uomo, che è anzi condizionato dalla cosa in sé, non può fare altro che porre ordine tra i fenomeni, ma è un anello della catena causale della natura. Nella Critica della ragion pura non c’è alcun accenno alla libertà umana, anzi, l’esistenza della libertà nel mondo è una di due possibilità delle antinomie della cosmologia razionale; ma per Kant non si può decidere se una antinomia o l’altra sia vera. Per Kant, insomma, nella Critica della ragion pura non c’è alcuna libertà. Invece nella Critica della ragion pratica egli afferma che il primo postulato per l’uomo morale è la libertà. Il motivo è semplice: se non si ipotizza la libertà non c’è neppure moralità, in quanto l’essere morale implica lo scegliere tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù. Se fossimo costretti da qualche meccanismo automatico alla virtù, se fossimo creature angeliche, non saremmo liberi e non saremmo morali. Se fossimo coartati automaticamente dalla nostra natura a seguire per forza la virtù, non ci sarebbe libertà. L’uomo si muove invece tra quel male radicale di cui abbiamo detto, cioè il peccato originale, se vogliamo usare i termini teologici, e la possibilità di seguire l’imperativo della ragion pratica. Abbiamo detto che l’uomo vive continuamente una lotta tra l’imperativo categorico e le inclinazioni. Se vive questa lotta, ciò vuol dire che l’uomo può scegliere due strade: vizio e virtù, bene e male. Perché ci sia una vita morale, ci dev’essere la possibilità di scelta tra queste due alternative. L’animale, che segue l’istinto in maniera automatica, è amorale, è fuori della morale, è al di qua del bene e del male, mentre invece la scelta tra bene e male implica la libertà. La moralità, che è scelta per il bene contro il male, per la virtù contro il vizio, implica la libertà. «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli, e la libertà sarebbe la proprietà di questa causalità, d’agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante»: la libertà significa agire indipendentemente da ogni causa estranea determinante; risaliamo all’intenzionalità: anche se le cause esterne mi sono di impedi- mento, sono libero di adeguare, però, la mia volontà all’imperativo della ragione. Provo a fare un esempio drammatico. Ammettiamo che una persona sia paralizzata, e non possa correre a salvarne un’altra che sta andando incontro a un pericolo; la causalità esterna le impedisce completamente di agire, ma questa persona, se vuole con tutte le sue forze salvare chi vede in pericolo, sta adeguando la propria volontà all’imperativo categorico di rispettare l’altro, di amarlo come se stesso, e allora, pur impedita fisicamente, pure impedita dal mondo naturale, dalla causalità esterna, sta vivendo la libertà di essere buona. Si può essere liberi di essere buoni anche se nella pratica non si riesce a fare neppure un millesimo di quel che vorrebbe fare. Per Kant la libertà dell’agire morale rende l’uomo completamente indipendente rispetto al mondo. «La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto essi sono ragionevoli,…». In fondo vuol dire questo: «State attenti che per libertà non intendo lo svincolamento dalle leggi della natura e l’arbitrio. È vero che l’uomo in quanto essere morale non è soggetto alle leggi della natura, ma non vi illudete che nella sfera morale si possa agire a capriccio: la sfera morale avrà le sue leggi come le ha la sfera naturale, e queste leggi saranno le leggi della ragione». Ancora una volta Kant mette in guardia contro il concetto di libertà come arbitrio, come velleità. Per Kant la libertà non è arbitrio, il voler fare quello che pare e piace: la libertà è la razionalità, la libertà coincide con l’agire secondo i dettami della ragione. Agire secondo i dettami della ragione significa non agire a caso e non agire a capriccio, perché la ragione è tutto tranne che caso e capriccio. Faccio un esempio paradossale, per dire che per Kant la libertà coincide con la ragione quindi con qualche cosa che non è l’arbitrio, ma con una restrizione delle possibilità: si è liberi di uscire da questa stanza, ma solo dalla porta, dal balcone purtroppo non si è liberi di uscire perché ci si fa male, anzi ci si può addirittura sfracellare; è chiaro dalle più semplici osservazioni del comportamento che noi seguiamo ogni sorta di leggi quando siamo liberi di agire, se invece interpretassi la libertà nel senso assurdo in cui viene spesso interpretata oggi, cioè di arbitrio totale, questo significherebbe l’equivalente di considerare la libertà come la possibilità di uscire dal balcone. È chiaro che se sono libero, se uso quindi la ragione, mi guarderò bene dall’uscire dal balcone, non interpreterò, cioè, la libertà come arbitrio di poter fare tutto quello che voglio, ma come agire secondo quello che è razionale (ed è razionale uscirsene tranquillamente per la porta). Ora, Kant con queste sue affermazioni vuole dire: è vero che l’uomo si distacca dalla sequenza della causalità naturale, è libero, però questa libertà non è l’arbitrio, in quanto la libertà è adesione alla razionalità. «…come la necessità naturale è la proprietà che possiede la causalità di tutti gli esseri sprovvisti di ragione, di essere determinata all’azione dall’influenza di cause estranee». Poche righe dopo, dice: «Pertanto la libertà, quantunque non sia una proprietà del volere conforme a leggi della natura [cioè non ha a che fare con le leggi della natura], non deve tuttavia essere affatto esente da leggi, bensí deve piuttosto essere una causalità secondo leggi immutabili, ma di natura speciale: ché altrimenti una volontà libera sarebbe un non senso».
    Gli altri due postulati sono Dio e l’immortalità dell’anima. Come viene fondata l’immortalità dell’anima? «Ma questo progresso infinito è possibile solo sotto il presupposto d’una persistenza infinita, come personalità, dello stesso essere razionale (ciò che si dice immortalità dell’anima)», L’uomo, per i motivi che abbiamo detto poco fa, non riesce a realizzare l’azione morale: ognuno di noi, nonostante gli sforzi, riesce a realizzare solo in maniera minima, se pure vuole agire moralmente, la bontà. Il disagio di ogni uomo che vuole vivere virtuosamente è l’inadeguatezza delle proprie forze, cioè il non riuscire ad agire veramente in maniera morale, e soprattutto il fatto che il mondo è dominato dall’immoralità, non è recettivo rispetto al bene. Per Kant, l’uomo morale, proprio perché vive questa frustrazione dovuta all’intenzionalità della morale, al fatto di avere intenzione di fare il bene e non riuscirci, ha una forte esigenza di postulare, cioè di immaginare, di sperare, che la vita abbia una prosecuzione, che la sua esigenza di perfezionamento e anche di successo nell’azione morale possa continuare all’infinito, che quindi non siano troncati improvvisamente, a un certo punto, la propria tensione morale, il proprio sforzo morale, ma che essi possano proseguire. L’aspirazione dell’uomo al continuo perfezionamento, la sua insoddisfazione per il fatto di non essere all’altezza delle situazioni, di non essere pienamente morale, lo spingono a sperare, a credere nell’immortalità dell’anima, nel fatto che possa avere un cammino infinito ancora da percorrere per realizzare perfettamente il bene. Infine il postulato dell’esistenza di Dio. Anche questo è collegato al discorso che stiamo facendo: «Ora l’essere razionale che agisce nel mondo non è anche causa del mondo e della natura stessa [cioè l’uomo, con la sua ragione, non è causa del mondo e della natura]. Quindi non vi è nella legge morale il più piccolo fondamento per un accordo necessario fra la moralità ed una felicità – ad essa proporzionata – d’un essere appartenente al mondo come parte e perciò da esso dipendente». L’uomo agisce moralmente, il mondo però non l’ha fatto lui, il mondo è refrattario alla sua azione morale e soprattutto il mondo non si concilia con lui e non gli dà soddisfazione, non gli dà la felicità. L’uomo, abbiamo detto prima, può essere virtuoso, ma contemporaneamente può essere anche infelice, può vivere una vita assolutamente priva di soddisfazioni, di gioia, di felicità. «Tuttavia nel compito pratico della ragion pura, un tale accordo è postulato come necessario: noi dobbiamo cercare di promuovere il sommo bene (che deve quindi essere possibile)… È un dovere per noi promuovere il sommo bene, quindi non è solo un diritto, ma un bisogno necessario connesso col dovere il presupporre la possibilità di questo sommo bene. Il quale, poiché ha luogo solo sotto la condizione dell’esistenza di Dio, collega inseparabilmente la esistenza di Dio col dovere; il che equivale a dire che è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio». L’esistenza di Dio significa l’esistenza di un essere onnipotente nel quale si conciliano la virtù e la felicità, si concilia il voler fare il bene e il realizzare veramente il bene; per la sua onnipotenza Dio viene inteso come colui che tutto può e quindi può effettivamente realizzare il bene, mentre l’uomo vive la frustrazione di voler fare il bene e di non riuscire a realizzarlo.
    I tre postulati della ragion pratica pongono questo problema: la Critica della ragion pura ci mostra un uomo condizionato dalla cosa in sé, che è uno dei tanti anelli della concatenazione degli eventi causali, che non è libero e non si può porre il problema di Dio e dell’anima; la Critica della ragion pratica ci mostra l’uomo, invece, libero di agire moralmente, che trova in se stesso la forza dell’azione morale, che trova una via pratica per arrivare a Dio e all’immortalità dell’anima. Tra le due Critiche c’è uno iato, c’è una distanza, c’è una contraddizione. È una contraddizione che Kant tenta di sanare con La critica del giudizio.
  10. .
    1)E' sempre la solita ripetuta affermazione, non per questo meno vera: il progresso tecnologico e materiale delle società "affluenti" non è andato, in tutti i gli ambiti vitali, di pari passo con il progresso morale. Ne è un esempio la condizione degli anziani, che la vita quotidiana dei paesi industrialmente più sviluppati tende a collocare ai margini.
    A mio avviso, il problema degli anziani è il più misconosciuto e il più urgente da risolvere dei giorni nostri, è la violenza più artatamente nascosta dalla nostra società, è lo scheletro nei nostri armadi, la menzogna su cui prosperiamo.

    Succede che un tipo di società che dà valore alla produttività, alla velocità, alla giovinezza, all'efficienza, al consumo vistoso e immediato, all'individualismo competitivo ed esasperato, al cambiamento costante di gusti e opinioni non può che tendere ad escludere, in modi a volte subdoli e sottili, chi non riesce ad adeguarsi ai valori dominanti.

    A parte pochi privilegiati, per reddito, cultura e salute, che occupano un ruolo preminente nella scala sociale, a volte persino eccessivo (occorre guardarsi anche dai pericoli delle gerontocrazie), la maggior parte degli anziani vive una penosa condizione di invisibilità, di mancanza di potere, di emarginazione.

    Gli anziani sono lenti nei movimenti, mal si adattano ai vorticosi cambiamenti del mondo del lavoro e alla filosofia produttivistica delle aziende, hanno perso flessibilità, sono spesso rigidi nelle loro opinioni e atteggiamenti, sono a volte persino portatori di preconcetti difficilmente difendibili, rappresentano valori sconfitti dall'attualità, testimoni noiosi e ripetitivi di un mondo agli albori della tecnologia, spesso minati da penose malattie, insufficienze, incapacità, che ci costringono, tutti, a misurarci con i nostri limiti e la nostra fragile condizione di uomini.

    Ma quello che ancora più addolora è l'esclusione dell'anziano all'interno della famiglia stessa; il vecchio che vive al suo interno è poco adatto ai ritmi convulsi e alla ideologia consumistica, e spesso è d'intralcio alla filosofia del massimo divertimento da realizzare oggi, subito.

    E' un dato di fatto: le generazioni non si parlano più, condividono fra loro sempre meno valori. Noi giovani restiamo indefinitamente figli che tutto chiedono e niente danno, cui tutto è dovuto, senza alcuna gratitudine né compassione per chi ha contribuito alla condizione di cui godiamo.

    Non deve stupire se gli anziani vengono fiduciosamente affidati a quei moderni "lager" che sono talvolta (spesso?) gli ospizi, le case di riposo, spesso terrificanti già nell'architettura finto razionalista, istituzionalizzati, dimenticati, sopraffatti da organizzazioni indifferenti, avide e violente, senza diritti, abbandonati consapevolmente persino dallo Stato che infatti non esercita quasi mai il suo potere di controllo.
    Oppure quelli che possono, vivono da soli in modesti locali, semiabbandonati da figli e parenti alla loro sorte, e tutti i giorni si legge sul giornale di un anziano che viene trovato morto dopo giorni, già in stato di decomposizione. Una morte senza aiuto e senza conforto, solitaria, come la loro condizione.

    Rimedi definitivi, ricette infallibili e miracolose forse non ce ne sono. L'uomo deve misurarsi, dicono i buddisti, con tre condizioni pressoché invincibili: malattia, vecchiaia e morte.
    Ma detto questo, anzi proprio a causa di questo, molte cose rimangono da fare per migliorare la condizione dei vecchi, per ridare maggiore dignità alle loro esistenze, per lottare contro la disumanizzazione oggi prevalente. Intanto, proprio il destino umano comune, deve spingere i sani e gli attivi all'impegno della solidarietà. Dobbiamo riconoscere nell'altro ammalato, bisognoso, solo, vecchio la parte rimossa di noi stessi, quella che l'ossessivo attivismo quotidiano tende a tenerci celata.

    Inoltre bisogna migliorare e personalizzare l'offerta di servizi e opportunità, bisogna razionalizzare gli interventi socio-sanitari, smettendola però di ridurre al lumicino le già insufficienti risorse destinate all'assistenza e alla sanità.
    Occorre modificare le nostre concezioni urbanistiche e architettoniche, per rendere le città, le tipologie abitative, le case più conformi alle necessità della popolazione anziana: penoso è per esempio vedere oggi un vecchio attraversare la strada, o coabitare in famiglia in spazi abitativi insufficienti, che finiscono per rendere difficile a tutti la convivenza.

    Occorrono pensioni più adeguate, che permettano agli anziani una più sicura autonomia economica, bisogna incentivare e premiare concretamente, economicamente chi si prende cura dei vecchi. Bisogna ripensare soprattutto la nostra organizzazione di vita occidentale, la nostra filosofia falsamente vincente, quando l'automazione tende sempre più a liberarci dal tempo di lavoro e quando questo tempo potrebbe essere proficuamente impiegato nel migliorare la qualità della vita dei soggetti più deboli e bisognosi.




    2)Credo che parlare di anziani susciti in molti giovani una reazione di rigetto. Più di tanto l'argomento non riesce a coinvolgere. Anche da parte mia esiste una notevole difficoltà a identificarmi con loro, a capire la loro psicologia.
    Ciò dipende dalla frattura generazionale e dalla negazione della vecchiaia, molto diffusa nella nostra società.
    I valori dell'anziano appartengono a un'altra epoca, spesso sono ancora i valori di una società preindustriale, estranea al modo di sentire degli adolescenti di oggi.
    Mi viene in mente, ad esempio, l'atteggiamento nei confronti dell'autorità, mutato nel giro di poche generazioni, dalla sottomissione all'antiautoritarismo.
    Il meccanismo della negazione agisce invece attraverso altre modalità. La società contemporanea privilegia la produzione e il consumo e di conseguenza la vita attiva, il successo. L'anziano, emarginato spesso precocemente dal processo produttivo, sul quale egli stesso fondava la propria identità, perde la stima degli altri e di riflesso la propria.
    Il suo destino sembra essere l'isolamento, la solitudine, la mancanza di rapporti personali significativi.

    Ciò incide sulle sue condizioni fisiche e psichiche. Frequenti sono le sindromi "psicopatologiche" in questa età; la vita può essere avvertita sovente come priva di significato. Numerosi i tentativi di suicidio, per richiamare su di sé l'attenzione; purtroppo ancora più numerosi i suicidi "riusciti".

    La mancanza di cultura e lo scarso reddito impediscono a molti anziani di usufruire del proprio tempo libero in termini gratificanti. Le passeggiate e la televisione finiscono per costituire gli unici svaghi che i vecchi possono permettersi. La sessualità degli anziani è ancora un argomento tabù, che suscita la riprovazione sociale; la diminuzione di efficienza in alcuni compiti, i deficit sensoriali di vista e udito vengono sottolineati negativamente da una società in cui vige l'etica della prestazione.

    Se l'estromissione dal mondo del lavoro comporta ripercussioni più pesanti per il vecchio di sesso maschile, per le donne la vecchiaia pone nuovi problemi. Succede che i figli, a una certa età, escano di casa formandosi una famiglia propria. Ciò comporta ancora per molte donne la perdita di una ragione di vita: identificatasi per tanti anni nel ruolo di madre, la donna deve cercare altre ragioni e altri interessi.
    La menopausa comporta nuovi problemi: può finalmente permettere alla donna di vivere più liberamente la propria sessualità, ma più spesso determina una crisi personale, per l'impossibilità di divenire ancora madre e per la percezione di una progressiva riduzione dell'avvenenza fisica, in cui è difficile stabilire quanto giochi il fattore biologico e quanto quello culturale.
    È certo però che questi avvenimenti possono determinare nella donna una riduzione dell'autostima.

    Quando la sua condizione si accompagna alla malattia, l'anziano finisce col costituire un intralcio alla vita caotica, "attiva" dei sani, divisa tra il lavoro e un tempo libero, consacrato al consumo e all'esibizione degli status-symbol.

    L'anziano malato è allora destinato a diventare ospite di quelle strutture-ghetto, che la società riserva a chi vive fuori dai valori dominanti.
    Tutto sommato, l'ospedale non è l'istituzione più emarginante, fra quelle previste per l'anziano.
    Tuttavia la logica paraindustriale e aziendale della organizzazione ospedaliera, nonché il tecnicismo e l'impersonalità degli interventi, fanno dell'ospedalizzazione un momento di crisi e di violenza per il malato.

    Si dice che l'anziano sia particolarmente ansioso per la propria salute. L'ansia centrata sul corpo è in realtà espressione di un'insicurezza più diffusa, legata a una condizione esistenziale precaria.
    In ospedale l'anziano può risultare particolarmente noioso. Le modalità di reazione alla malattia sono quelle descritte nei manuali di psicologia medica: regressione, negazione, isolamento, formazione reattiva.
    Tutto sembra dipendere dalla struttura individuale della personalità e dalle situazioni specifiche del momento.

    In questi casi si deve comprendere che se l'anziano si comporta infantilmente, si lamenta dell'assistenza o del cibo, nega di aver bisogno di cure, diventa aggressivo, ciò deriva non tanto dal fatto che sia cattivo o deteriorato, quanto da una difficoltà, da cui si difende come può.
    Ciò non significa che in alcuni frangenti non sia utile aggredire, almeno superficialmente tali difese; tuttavia la capacità di operatori e familiari di capire la reazione dell'anziano ammalato, può già stemperare parecchio la frustrazione di subire risposte incongruenti.

    La conclusione della vita riguarda ciascuno di noi e il vecchio in modo particolare. Morte e vecchiaia, un tempo non necessariamente correlate, perché epidemie, carestie e guerre mietevano vittime ancora in giovane età, costituiscono oggi un binomio inscindibile.
    E come già per la vecchiaia, anche nei confronti della morte la società occidentale reagisce con la rimozione. La morte contraddice i miti di felicità e successo dell'uomo contemporaneo. Egli ne prende le distanze, la privatizza, la isola dietro un paravento, in un solitario letto d'ospedale.

    A parte artisti e scrittori, pochi studiosi si sono occupati del tema della morte, un vero tabù culturale dei nostri giorni. Tra questi la più importante è Elisabeth Kübler-Ross. La psichiatra di origine svizzera, ma americana di adozione riconosce almeno quattro fasi nella reazione dell'uomo di fronte alla morte: la negazione, la rabbia, la depressione e l'accettazione.
    Purtroppo accompagnare una persona nell'affrontare la morte non è consuetudine dei nostri ospedali. L'enfasi è posta sulla tecnica, in sé buona, che però in questo caso maschera, attraverso la negazione della morte dell'altro, la negazione della propria.

    Penso non sia facile, soprattutto nelle situazioni concrete, spesso così difficili da rapportare a un modello teorico, assistere un uomo che muore. L'assistenza completa alla persona morente è una realtà in divenire, verso cui la società e la scienza sembrano essersi sensibilizzati negli ultimi anni, con la creazione, ad esempio degli hospice. Certamente molto lavoro organizzativo e culturale rimane ancora da fare.

    È tempo, a mio avviso, che in campo sanitario l'egemonia del modello scientifico, tecnologico, sperimentale si attenui per lasciar spazio a un'idea di assistenza sanitaria globale e multidisciplinare. Soltanto così potremo affrontare il progressivo invecchiamento della popolazione e i problemi sanitari connessi. E solo così potremo prenderci cura dell'anziano, nel pieno rispetto di tutte le dimensioni della sua personalità.

  11. .
    1)Numerose circostanze concorrono e hanno concorso, a mio giudizio ma anche secondo parametri oggettivi, alla determinazione in seno alle società occidentali del problema della disoccupazione.
    Per esempio, i continui cambiamenti nei modi di produzione, che oggi vedono l'avanzare della automazione e della tecnologia informatica in molti settori; la razionalizzazione della produzione con pratiche manageriali volte alla massimizzazione del profitto e alla riduzione massima dei costi; la competizione "globale" nel pianeta.

    Numerose persone finiscono così per non trovare lavoro o per perderlo, perché per età o grado di istruzione non riescono ad adeguarsi alle nuove tecnologie e perché i settori "maturi" e tradizionali della produzione espellono, anziché attrarre forza lavoro.
    Tutto ciò si ripercuote sulla qualità della vita di ampi strati di popolazione, che si vedono diminuire i redditi e comunque si sentono minacciati nell'agio e nella sicurezza, spesso raggiunti da poco e con fatica.
    Qualcuno ritiene che, per godersi la vita, sia necessario considerarsi arrivati, mentre la nostra società occidentale alimenta invece, nell'ambito lavorativo, i sentimenti di precarietà, insicurezza, competizione, percepiti da molti come intollerabilmente angosciosi.

    Tenderà a cronicizzarsi il problema della disoccupazione? Davvero la nostra esistenza sarà mortificata anche negli anni a venire da questa piaga, malgrado gli indiscutibili progressi raggiunti dalla scienza e dalla tecnica?
    Io credo di no.
    Anzitutto, la disoccupazione non è un problema nuovo, ma da quando la rivoluzione industriale ha cambiato il volto dell'Occidente, si ripresenta, ciclica, ad ogni significativo cambiamento di paradigma produttivo.
    E' possibile che quando la situazione si assesti e i settori più "giovani" siano giunti a una maggiore definizione, molta forza lavoro venga assorbita.
    Bisogna svincolarsi dall'idea che i posti di lavoro siano una quantità fissa: molto dipende dal dinamismo di individui e società, dalla loro creatività, dalla loro capacità di indurre nuovi bisogni (si spera, progressivi e non alienati). Il numero di posti di lavoro dipende quindi anche dalla buona volontà e dall'impegno di un'intera cultura.
    Come dipende da una rivoluzione culturale la volontà di considerare il lavoro in modo diverso, non una condanna, ma un gioco, serio e impegnativo, ma soprattutto creativo, dove ciascuno investa la propria personalità. Non più quindi la cultura ad oltranza del posto fisso, cui accedere per diritto, senza avere magari nessun requisito, ma maggiori flessibilità e impegno, maggiore volontà di raggiungere dei risultati, di porsi al servizio di individui e comunità, in modo non "servile", ma intelligente e utile.
    Soprattutto sarà necessario responsabilizzare gli individui, far sì che facciano propria l'idea di formazione continua, di cura dei propri talenti, di autonomia nello sviluppo di adeguati percorsi formativi.
    Importante sarà una scolarizzazione diffusa, ma ancora più importante la disponibilità a imparare in autonomia nell'intero arco della vita, anche (e soprattutto) fuori dal normale contesto scolastico.

    Fermo restando che l'eccesso di liberismo economico che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni non va bene. Se è utile eliminare le rigidità e richiedere al lavoratore un impegno responsabile, è pure vero che imprenditori, dirigenti, Stati e comunità devono offrire contropartite valide. Il cosiddetto "Welfare State" va rimodulato, ma non soppresso.
    Ciascuno di noi ha bisogno di occupazioni sufficientemente attraenti, ben remunerate, di alternare periodi di lavoro a periodi di studio, di un tempo libero dilatato (d'altronde quello della progressiva diminuzione del tempo di lavoro è una costante ineluttabile delle economie occidentali), di contare di più all'interno delle organizzazioni produttive, di luoghi di lavoro salubri e stimolanti.
    Sono necessari ammortizzatori sociali che impediscano lo sviluppo di sacche di povertà, offrire a tutti opportunità di formazione e di cambiamento, concedere alle persone la possibilità di estrinsecare i propri talenti.

    Un capitalismo molto più simile a quello tedesco o giapponese che a quello americano. Fatto di efficienza e di impegno sì, ma anche di garanzie.



    2)Certamente la disoccupazione è un problema dei nostri giorni, anche se forse ci siamo dimenticati che negli anni fra le due guerre lo era ancor di più. Allora la gente davvero versava in uno stato di miseria, e non avere un lavoro poteva significare la fame, una condizione che si cercava di combattere rovistando tra i rifiuti. Oggi, più che altro, la disoccupazione è un problema che tocca i giovani alla ricerca della prima occupazione, oppure persone già avanti nell’età, scartati dal mercato per fallimento della ditta o per licenziamento. La condizione di queste persone non è sempre di povertà assoluta, grazie anche, in alcuni casi, ai cosiddetti “ammortizzatori sociali”, come l’indennità di disoccupazione o la “cassa integrazione”. Il loro disagio è più profondo, dovuto al fatto di non essere valorizzati per quello che si è fatto o si è studiato fino ad allora. C’è un problema, quindi, di mancato raccordo tra scuola e società, tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro. Ci sono, però, purtroppo, anche dei problemi ambientali; ad esempio in alcune zone l’industria non è mai decollata o il terziario fatica ad affermarsi, a parte la pubblica amministrazione. Da una parte, quindi, i disoccupati potrebbero aiutare a risolvere i loro problemi, cercando di riqualificarsi in settori più produttivi, o trasferendosi in zone più favorevoli alla ricerca di lavoro. Colpisce, per esempio, il fatto che in certi settori, come quello degli infermieri, la richiesta di personale sia superiore alla domanda di impiego.

    D’altra parte, però, occorre fare qualcosa a livello politico-generale per favorire la ripresa economica. Per questo obiettivo tutti i governi, di destra o di sinistra, hanno fatto grandi proclami di voler risolvere il problema, ma non sempre le frasi propagandistiche si sono trasformate in realtà. Davvero singolare, poi, il caso di nazioni, come la Germania, la Francia o l’Inghilterra, che erano viste come modelli di sviluppo industriale, ed oggi lamentano impressionanti aumenti del tasso di disoccupazione. La soluzione, quindi, non è facile, e non è neanche del tutto risolvibile con le decisioni governative. Certo, magari detassando le aziende, si possono creare i presupposti affinché chi ha i soldi li investa in attività produttive che generano occupazione e lavoro, piuttosto che accumularli senza investire. Però mi sembra che il problema più grave sia quello della mancanza di adattabilità, per cui credo che con un po’ di buona volontà tutti potrebbero trovare una collocazione utile alla società e gratificante per se stessi. Occorre quindi che le leggi incentivino questa flessibilità e si adattino ai cambiamenti del mondo del lavoro. Un certo Marco Biagi è morto, ammazzato dai brigatisti rossi, per questo!



    3)Non passa giorno senza che un uomo politico, in Italia o fuori, deprechi l'alto tasso di disoccupazione, promettendo provvedimenti per farlo scendere. La disoccupazione è diventata l'incubo del nostro tempo, la calamità che affligge i popoli, la peste dei tempi moderni. Con particolare riferimento all'Europa, dove i disoccupati sono, proporzionalmente alla popolazione, più numerosi che altrove. Ora, non nego che la disoccupazione sia un malanno. Ma ho l'impressione che sia anche diventata un luogo comune, e che coloro che ne parlano non sempre sappiano di che cosa stanno parlando. Assistiamo a una specie di riflesso condizionato. Già negli anni Trenta la disoccupazione era fonte di disperazione e causa di tanti guai, fra i quali anche l'ascesa di Hitler al potere. Ora tutto è cambiato intorno a noi: ma si continua a parlare di disoccupazione con gli stessi accenti con cui se ne parlava allora, come se si trattasse sempre dello stesso fenomeno. Il punto di partenza che conviene tener presente, quando si affronta il tema, è che nella prima metà del secolo i disoccupati erano veramente dei disperati, ridotti alla miseria e alla fame: si mettevano in coda, anche nei paesi ricchi come gli Stati Uniti e l'Inghilterra, per un piatto di minestra; rovistavano nei rifiuti in cerca di cibo. Oggidì, la disoccupazione è sempre una sciagura, ma si manifesta in modo diverso; è deprecabile, ma per altre ragioni. I disoccupati del Duemila sono sempre infelici, ma non per l'assillo di una povertà paragonabile a quella del passato, non così estrema. La società moderna, nei paesi industriali avanzati, quindi anche in Italia, eccezion fatta per alcune zone del Mezzogiorno, è abbastanza benestante, nel complesso, per sopportare il peso di una parte della popolazione non produttiva, e per farla partecipare, mediamente, a un certo benessere. Anche chi è senza lavoro gode per lo più di un tenore di vita non proprio spregevole. Ci sono disoccupati, a quanto si sente dire da coloro che si occupano di questi problemi, che vanno a cercare lavoro in automobile.
    Sono disoccupati, oggidì, uomini e donne non più giovani, scartati dalle loro aziende in modo più o meno brutale perché non servono più, e ormai troppo avanti negli anni per trovare un nuovo lavoro; e sono disoccupati molti giovani in attesa del primo impiego perché non conoscono ancora un mestiere, oppure perché non trovano un lavoro adatto alla loro preparazione e alle loro inclinazioni. Le condizioni degli uni e degli altri, degli anziani e dei giovani, sono causa di depressione, di squilibri psicologici; se vogliamo usare una parola facile ma onnicomprensiva, sono causa di "infelicità". Uno psicologo che conosce molti giovani in cerca di lavoro osserva che la disoccupazione è una causa di turbamento per la gioventù moderna, ma non è l'unica. Più grave ancora, a suo avviso, è la disgregazione della famiglia; la mancanza di punti di riferimento sicuri; la mancanza, in molti casi, di un padre, perché i genitori si sono separati: tutte cose note, e dette e ridette tante volte, e non certo rimediabili con provvedimenti governativi. Ma anche la disoccupazione, male moderno, deve essere vista nel quadro di una crisi generale, e non come l'unico grande flagello dei paesi industriali avanzati. Se ne parla tanto: quanti si chiedono che cosa significhi in realtà, e che cosa c'è dietro?
  12. .
    LA VITA E IL PENSIERO

    La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull'ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all'esterno ; infatti - dice Seneca - se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perchè non ci trascini; bisogna combattere tutti i suoi indizi e le sue manifestazioni: é opportuno raddolcire la voce , allentare il passo, contenere il volto e a poco a poco l'interno si conformerà all'esterno: exemplum di questo atteggiamento è Socrate, il quale, quando era adirato, era solito "submittere vocem".

    Pugna tecum ipse, si vis vincere iram, non potest te illa. Incipis vincere, si absconditur, si illi exitus non datur. Signa eius obruamus et illam quantum fieri potest occultam secretamque teneamus. Cum magna id nostra molestia fiet, cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem, sed si eminere illi extra nos licuit, supra nos est. In imo pectoris secessu recondatur, feraturque, non ferat. Immo in contrarium omnia eius indicia flectamus: vultus remittatur, vox lenior sit, gradus lentior; paulatim cum exterioribus interiora formantur. In Socrate irae signum erat vocem summittere, loqui parcius; apparebat tunc illum sibi obstare. Deprendebatur itaque a familiaribus et coarguebatur, nec erat illi exprobratio latitantis irae ingrata. Quidni gauderet quod iram suam multi intellegerent, nemo sentiret? Sensissent autem, nisi ius amicis obiurgandi se dedisset, sicut ipse sibi in amicos sumpserat. Quanto magis hoc nobis faciendum est! De ira, III)

    Perfino Platone, preso da ira verso un suo schiavo, affidò ad un altro il compito di picchiarlo perché lui stesso l’avrebbe picchiato più del giusto. Con il suo trattato sull’ira, Seneca prende le distanze dalle posizioni peripatetiche, propense a dar libero sfogo all’ira e non a contenerla. Il filosofo consigliere può contribuire alla formazione nel principe di quell'autodominio, che é garanzia del corretto dominio sugli altri. La monarchia é la forma naturale di costituzione: come il cosmo é tenuto insieme - secondo una tesi tipicamente stoica - da un soffio vitale, da una mente divina che lo pervade, così il corpo dell'impero é tenuto saldamente in piedi dal principe. La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perchè vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce , non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità , esce dal carcere ... Quel che importa non é morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene é fuggire il pericolo di vivere male" (Epistole a Lucilio, 70 ). Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perchè quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur" (vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso) : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di sè, della parte migliore di sè, cioè della propria ragione. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti , in particolare alcuni dialoghi De otio, De tranquillitate animi, De providentia e soprattutto le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo in nuce l’intero pensiero senecano. Ridiventando filosofo, Seneca trova davanti a sè la natura da contemplare nelle sue manifestazioni e nel suo ordine; all' indagine sulle cause dei fenomeni metereologici egli dedica le Questioni naturali, in sette libri . Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa: "siamo tutti schiavi del destino: qualcuno é legato con una lunga catena d'oro, altri con una catena corta e di vile metallo. Ma che importanza ha? La medesima prigione rinchiude tutti e sono incatenati anche coloro che tengono incatenati gli altri ... Tutta la vita é una schiavitù. Bisogna quindi abituarsi alla propria condizione, lamentandosi il meno possibile e cogliendo tutti i vantaggi che essa può offrire" (De tranquillitate animi). Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiam fare è accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male. Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è da Seneca compendiata - Epistulae ad Lucilium, 107 - nella sententia "il fato guida chi è consenziente, trascina chi si oppone" ("ducunt fata volentem, nolentem trahunt"). Il dominio dei valori si trova così spostato dall'esterno all'interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L' interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed è per questo che il pensatore spagnolo ci invita (De ira, III, 36) alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare un redde rationem, una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata. La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poichè questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perchè con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Felice che Lucilio accetti benevolmente la presenza degli schiavi, Seneca ne approfitta per dissertare sulla loro condizione, asserendo: "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: "così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura". Tanto più che la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi: "considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo". Del resto, la stessa Ecuba, lo stesso Platone e perfino Creso vennero fatti schiavi quand’erano già in età avanzata: che cosa ci vieta allora di pensare che sorte analoga possa toccare anche a noi? Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare con noi e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni, poiché "della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino". Del resto – nota acutamente Seneca – chi non è schiavo? "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: nel De beneficiis - un’opera in cui Seneca mette in luce come il vero beneficio sia quello fatto in maniera disinteressata e non per averne un tornaconto – egli scrive: "nulli preclusa est virtus, omnibus patet, omnes admittit, omnes invitat ingenuos, libertinos, servos, reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est" (De beneficiis, III, 18, 4). Se è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca, Epistola 42 – da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l'etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell'autosufficienza (autarkeia) del sapiente. La costruzione e l'affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all'anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell'aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente (laqe biwsaV): questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell'antichità: Cicerone si era sì rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio. La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Come egli scrive (Lettere a Lucilio, 2), "soleo et in aliena castra transire, non tanquam transfuga, sed tanquam explorator" ("sono anche solito passare agli accampamenti altrui, non come disertore, ma piuttosto come esploratore"), giacchè anche le altre filosofie hanno qualcosa da insegnarci. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacchè "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, è quella dell’ape (Epistole a Lucilio, 84), la quale, errando qua e là, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta". Per questo motivo è di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi è dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda. Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato (De brevitate vitae) nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita è lunga, se sai farne uso") Il guaio è che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa (nel De brevitate vitae) un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa":"comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire" (Epistole a Lucilio, 1). E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica è impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica (il LogoV), che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.




    RIASSUNTO DELLE OPERE

    Ben poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell'uomo. Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di "Dialoghi" su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch'è quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo"):

    " De providentia " (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico, accettandolo serenamente.

    " De brevitate vitae ": vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.

    " De ira libri III " (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle: si tu vis vincere iram, non potest te illa , questo è il tema portante. Se per i Peripatetici era giusto che si potesse sfogare l'ira in manifestazioni esterne, per Seneca è l'esatto contrario: l'ira va trattenuta, va vinta, affinchè non sia essa a vincerci. Bisogna trascinarla dentro, affinchè non sia lei a trascinarci; è opportuno tenere nascoste le sue manifestazioni ( obruamus signa illius ).

    " De consolatione " (posteriore al 37 d.C.).

    " De clementia " : l'opera è stata composta all'incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è opportunamente dedicato all'imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nè le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l'unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L'ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione.

    " De costantia sapientis ", " De tranquillitate animi " (62 d.C.?): in questa trilogia, dedicata all'amico Sereno, Seneca cerca una mediazione tra l'otium contemplativo e l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell'intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa. E Seneca polemizza con un pensatore stoico (Attenodoro), sostenendo che il filosofo stoico non deve allontanarsi dalla politica (come voleva Attenodoro, sulla scia di Epicuro).

    " De otio " (62 d.C. ?): in quest'opera vi è un ribaltamento delle posizioni senecane: il vero filosofo stoico deve stare lontano dalla politica e dedicarsi interamente alla vita contemplativa. Chi opera politicamente si accorge di non potere esercitare la virtus, come si era accorto attenodoro, e come ora si accorge Seneca, in seguito alla rottura dei rapporti con Nerone.

    In effetti, più specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l'imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l'obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità d'animo capace di giovare agli altri, se non con l'impegno pubblico, almeno con l'esempio e con la parola. Sempre di filosofia trattano:

    " De beneficiis " (7 libri): dedicati all'amico Ebuzio Liberale, in essi si parla della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest'opera è un appello ai doveri della filantropia e della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del progetto di una monarchia illuminata. Il beneficio, per Seneca, è un atto in sè, non finalizzato ad avere un tornaconto.

    Tra i dialogi abbiamo due lettere ( ad Helviam matrem e ad Polybium , un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione, ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare l'imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.

    Quindi abbiamo: 124 " Epistulae morales ad Lucilium " (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L'opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicuro: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell'autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquium, S. propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene. La progressività del processo di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano che l'epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato filosofico.

    Di carattere scientifico sono i 7 libri delle " Naturales quaestiones ", dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali Seneca analizza i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete. L'interesse dell'autore per le scienze - ritenute parte integrante della filosofia - non è "gratuito", ma è legato ad una profonda istanza morale, comune all'epicureismo: quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Seneca celebra, tra l'altro, il valore etico del progresso scientifico, ma è contrario all'uso della scienza per fini esecrabili: ad esempio, è contrario all'uso illegittimo degli specchi o alla barbara usanza romana di intavolare i pesci ancora vivi.

    Ci sono poi: 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco: Hercules furens , Troades , Phoenissae , Medea , Phaedra , Oedipus , Agamemnon , Thyestes , Hercules Oetus . Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell'espressionismo verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l'ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l'azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell'autore greco Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae , che narra del tragico destino di Èdipo e dell'odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Èdipo è presente anche nell' Oedipus : causa inconsapevole dell'uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea, dalla quale l'autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione antitirannica. Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto all'interno dell'animo, nell'opposizione tra mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci, scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com'è dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno problema del potere. A parte va considerata l' Octavia , una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e l'unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l'affinità stilistica con le precedenti tragedie. l' " Apokolokýntosis " o "Ludus de morte Claudii", una satira menippea sull'apoteosi dell'imperatore: Il componimento narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene salutato l'avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco dell'opera e significherebbe "deificazione di una zucca", con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un'opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell'imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità. Si attribuisce infine a S. una raccolta di circa 70 epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.
  13. .
    I wandered lonely as a cloud
    That floats on high o'er vales and hills,
    When all at once I saw a crowd,
    A host, of golden daffodils;
    Beside the lake, beneath the trees,
    Fluttering and dancing in the breeze.

    Continuous as the stars that shine
    And twinkle on the milky way,
    They stretched in never-ending line
    Along the margin of a bay:
    Ten thousand saw I at a glance,
    Tossing their heads in sprightly dance.

    The waves beside them danced; but they
    Out-did the sparkling waves in glee:
    A poet could not but be gay,
    In such a jocund company:
    I gazed---and gazed---but little thought
    What wealth the show to me had brought:

    For oft, when on my couch I lie
    In vacant or in pensive mood,
    They flash upon that inward eye
    Which is the bliss of solitude;
    And then my heart with pleasure fills,
    And dances with the daffodils.




    TRADUZIONE

    Ho vagato solitario come una nuvola
    Che galleggia in alto o'er Vales e colline,
    Quando tutto in una volta ho visto una folla,
    Un ospite d'oro di narcisi;
    Accanto al lago, sotto gli alberi,
    Sfarfallio e balli nella brezza.

    Continuo come le stelle che brillano
    E scintillio sulla Via Lattea,
    Essi si estendeva in linea senza fine
    Lungo il margine di una baia:
    Diecimila ho visto in un colpo d'occhio,
    Tossing loro testa nella vivace danza.

    Le onde accanto a loro ballato; ma
    Out-ha spumanti onde gioia:
    Un poeta non poteva non essere gay,
    In tal jocund società:
    Mi guardava - e guardava - ma poco pensiero
    Che ricchezza lo spettacolo mi aveva portato:

    Per spesso, quando sul mio divano mi spetta
    In vacanza o in pensieroso umore,
    Essi flash occhio verso l'interno che su
    Qual è la beatitudine della solitudine;
    E poi il mio cuore si riempie di piacere,
    E danze con il narcisi.


    ANALISI
    Lo schema delle rime è ABABCC.

    Il pretesto di questo componimento è una visita al Lake District, da parte di William e della sorella Dorothy, la quale, nel suo diario, annota la visione di una grande quantità di narcisi che dondolavano al vento sulla riva del lago Ullswater.

    Il componimento riprende alcuni motivi chiave del Romanticismo, quale il contatto dell'uomo con la natura e riprende il concetto dell'autore stesso della poesia che prenda origine dalle emozioni,

    IL componimento nasce non immediatamente ispirato dalle sensazione della vista nei narcisi, piuttosto nato dal ricordo di questi attraverso il tempo.

    Nell'ultima strofa c'è una riconciliazione con la natura.



    SPIEGAZIONE INGLESE

    The speaker says that, wandering like a cloud floating above hills and valleys, he encountered a field of daffodils beside a lake. The dancing, fluttering flowers stretched endlessly along the shore, and though the waves of the lake danced beside the flowers, the daffodils outdid the water in glee. The speaker says that a poet could not help but be happy in such a joyful company of flowers. He says that he stared and stared, but did not realize what wealth the scene would bring him. For now, whenever he feels "vacant" or "pensive," the memory flashes upon "that inward eye / That is the bliss of solitude," and his heart fills with pleasure, "and dances with the daffodils".
    The four six-line stanzas of this poem follow a quatrain-couplet rhyme scheme: ABABCC. Each line is metered in iambic tetrameter.
    This simple poem, one of the loveliest and most famous in the Wordsworth canon, revisits the familiar subjects of nature and memory, this time with a particularly (simple) spare, musical eloquence. The plot is extremely simple, depicting the poet's wandering and his discovery of a field of daffodils by a lake, the memory of which pleases him and comforts him when he is lonely, bored, or restless. The characterization of the sudden occurrence of a memory--the daffodils "flash upon the inward eye / Which is the bliss of solitude"--is psychologically acute, but the poem's main brilliance lies in the reverse personification of its early stanzas. The speaker is metaphorically compared to a natural object, a cloud--"I wandered lonely as a cloud / That floats on high...", and the daffodils are continually personified as human beings, dancing and "tossing their heads" in "a crowd, a host." This technique implies an inherent unity between man and nature, making it one of Wordsworth's most basic and effective methods for instilling in the reader the feeling the poet so often describes himself as experiencing.
  14. .
    1)La vicenda che ha tolto il respiro a tutta l’Italia è quella che ha tristemente coinvolto una ragazza come tante altre, Sarah Scazzi. E' stata infatti tradita proprio dalle persone di cui si fidava maggiormente. Non ci si abitua mai ad un delitto e ancora di meno ad un efferato atto di violenza che coinvolge una giovanissima, piena di aspettative, passioni, ma soprattutto con una vita davanti in cui avrebbe deciso, sbagliato e sognato, se non fosse stata bruscamente interrotta dai suoi assassini.
    La tranquilla Avetrana è stato il palcoscenico di una delle vicende più tristi di questo anno, che ha inevitabilmente sconvolto gran parte di noi. Complici sono stati anche i media a cui questa vicenda è stata "data in pasto" senza alcuna pietà.
    A richiamare l’attenzione della televisione sono stati proprio i due omicidi che hanno presentato la vittima come una ragazza piena di sogni irrealizzabili che l’avrebbero portata a spingersi fino alla fuga dalla realtà familiare, per arrivare facilmente alle luci della ribalta, ma queste affermazioni altro non erano che una farsa, che avrebbe dovuto coprire la verità, una verità che è stata scandita in diretta TV quando hanno annunciato la morte della giovane Sarah, con la madre e i parenti in collegamento ad una nota trasmissione RAI. Fin dove può spingersi la fame di audience? Fino a dove può spingersi la voglia di strumentalizzare le vicende anche più tristi, in questo caso le tragedie, per attirare sempre più pubblico o semplicemente per distogliere l’attenzione da altri problemi?
    Gli accusati ad oggi sono due: lo zio di Sarah, Michele e la sua amica e cugina Sabrina; il movente sarebbe una questione di tipo "intrafamiliare”, ma gli inquirenti stanno ancora indagando per riportare alla luce l'amara verità.
    La vicenda è stata vissuta dall'opinione pubblica come una soap opera, come fosse una farsa, una fiction che ci inorridisce, ma che è vissuta con un certo distacco e con l'attenzione ad ogni singolo particolare e nuovo aggiornamento. Non è un caso che in questi giorni sono stati proposti tanti speciali sulla vicenda con ospiti appositamente scelti per studiare le sfumature della vicenda. Questo modo di portare tragedie personali in uno studio televisivo ha inevitabilmente innescato un secondo processo: quello di voler visitare di persona quei luoghi di cui tanto si parla.
    Avetrana è, oggi, per molte persone un luogo di pellegrinaggio, che per curiosità o per pietà vogliono portare un saluto o dedicare un ricordo alla piccola Sarah, tutto questo però sembra ignorare i sentimenti veri della famiglia e di chi è coinvolto direttamente in questa situazione che, secondo me, avrebbe bisogno solo di pace e di giustizia.






    2)Emergono nuovi dettagli sul triste epilogo della storia di Sarah Scazzi, la giovane ragazza scomparsa da casa lo scorso agosto e ritrovata morta questa notte. Come vi avevamo già annunciato, è stato lo zio a strangolarla nel garage di casa, ma fino a poco fa la stampa non ne aveva diffuso il movente. Dalle prime indiscrezioni, però, pare che si tratti di delitto passionale: il parente di Sarah avrebbe cercato ripetutamente di sedurre la ragazza e, non riuscendoci, ha deciso di scaricare la propria rabbia togliendole la vita. Ma non è tutto: l’uomo l’avrebbe violentata dopo il decesso.
    Le molestie a sfondo sessuale di Sarah non erano, tuttavia, un segreto. Proprio il giorno prima della sua scomparsa, la giovane aveva litigato con la cugina Sabrina, figlia dell’omicida, in merito al comportamento poco consono dell’uomo. Sabrina sapeva delle abitudini del padre, ma si è sempre rifiutata di esporre i fatti alle forze dell’ordine. Pare, inoltre, che la giovane abbia deciso di proseguire con l’omertà nonostante sapesse fin da subito del decesso della Scazzi.
    Una vicenda tragica che, tuttavia, non può far altro che sollevare fitte polemiche. Appare palese come molti dei famigliari di Sarah abbiano deliberatamente deciso di mantenere nascoste importanti informazioni, che avrebbero permesso di ritrovare il corpo della ragazza a poche ore dalla scomparsa. Nell’ultimo mese la colpa è sempre stata riversata su Sarah. Si è detto fosse scappata per inseguire l’amore di un adulto, poi per diventare famosa e, infine, per saltare la scuola: tutte versioni avvallate dai conoscenti, anche da chi sapeva.
    A questo quadretto poco edificante, si è aggiunto lo sciacallaggio mediatico della televisione: la madre è stata informata della perdita della figlia durante un collegamento con il programma di Federica Sciarelli, “Chi l’ha visto?“. Trasmissione che, come appare ovvio, è stata sospesa per il comprensibile malore della donna, a cui è stata privata la possibilità di vivere privatamente il proprio dolore.




    3)
  15. .
    Il sistema nervoso è la sede dell'assunzione, dell'elaborazione e trasmissione delle informazioni; in altre parole è un sistema di regolazione delle funzioni coporee e "fa concorrenza" al sistema endocrino e immunitario. Il sistema nervoso è un complesso sistema elettrochimico, comnposto da oltre 1000 miliardi di cellule, che viaggia a 400 km all’ora e che assorbe il 20% dell’ossigeno del nostro organismo.
    Encefalo e midollo spinale formano il sistema nervoso centrale o asse cerebrospinale (o nevrasse, neuroasse o tubo neurale) che è in grado di raccogliere, trasmettere e integrare le informazioni. Custodito all'interno della scatola scatola cranica (encefalo) e del canale vertebrale (midollo spinale), il sistema nervoso centrale, viene protetto ulteriormente e nutrito dal sistema delle meningi, dal liquor cerebrospinale e dalla propria vascolarizzazione (barriera emato-encegalica, emato-liquorale ed emato-retinica).
    Il sistema nervoso periferico, è formato dai nervi cranici o cefalici e dai nervi spinali (formanti assieme i nervi encefalospinali) e dai relativi gangli. Il sistema nervoso periferico viene suddiviso in volontario o somatico e involontario o vegetativo (o viscerale) o autonomo.
    L'encefalo, con un peso di 1,3-1,5 kg, è il secondo organo più pesante del corpo dopo il fegato. A riposo, il 25% dell'energia metabolica viene utilizzata per rifornire il cervello (8-10% in più rispetto agli altri primati non umani). Le strutture più antiche ("inferiori") si trovano in profondità (inferiormente e immediatamente sopra il forame occipitale), mentre le componenti più recenti ("superiori") si collocano sopra di esse.
    Il midollo allungato (bulbo o mielencefalo) è la parte più antica e la sua struttura si continua col midollo spinale (di cui ricorda la struttura metamerica). Nel midollo allungato i fasci motori, provenienti dalla corteccia cerebrale e diretti al midollo spinale, formano le piramidi, dove avviene la loro decussazione (incrocio a X). Il bulbo o midollo allungato, attraverso confini ben delineati, continua col ponte (ponte di Varolio) a cui si unisce il mesencefalo (o mesoencefalo), che assume una posizione mediana fra le regioni cerebrali antiche e recenti ("cervello intermedio"). Il mesencefalo è percorso da un sottile canale, l’acquedotto di Silvio (residuo della cavità mesencefalica embrionale). la sostanza grigia periacqueduttale media gli effetti analgesici (tramite la liberazione di endorfine). La porzione ventrale o corpo del mesoencefalo presenta i due peduncoli cerebrali (dx e sx), consistenti in colonne cilindriche di tessuto nervoso che mettono in comunicazione gli emisferi cerebrali con le altre strutture del sistema nervoso centrale. La porzione anteriore di ciascun peduncolo è caratterizzato da un nucleo intensamente pigmentato, detto sostanza nera del Sommering (substantia nigra) mentre posteriormente è presente il nucleo rosso. La sostanza nera di Sommering e il nucleo rosso sono importanti centri del sistema motorio extrapiramidale (la degenerazione e la conseguente decolorazione della substantia nigra di Sommering sono associate morbo di Parkinson). Sopra al nucleo rosso si trovano i nuclei dei due nervi oculomotori. Dorsalmente il mesencefalo è caratterizzato da quattro collicoli (sporgenze rotondeggianti), i tubercoli quadrigemini, che creano una formazione caratteristica, definita lamina quadrigemina. I tubercoli corrispondono a nuclei di sostanza grigia appartenenti, i due superiori, alle vie ottiche e i due inferiori alle vie uditive (controllandone alcune attività riflesse). Superiormente il solco crociato, formato dai tubercoli, si espande appianandosi dando posto alla ghiandola endocrina epifisi.
    Il midollo allungato e il ponte formano il romboencefalo. Il romboencefalo più il mesoencefalo fomano il tronco encefalico.
    I nervi cranici (nervi encefalici) sono un gruppo di nervi che invece di avere origine dal midollo spinale, partono direttamente dal tronco encefalico costituendo l'innervazione motrice e sensitiva della testa nonchè l'innervazione viscerale, sia in uscita che in entrata (efferente e afferente), degli importanti centri del sistema nervoso parasimpatico che controllano l'attività dei visceri della testa, del collo, del torace e dell'addome. Nell'anatomia umana ci sono dodici paia di nervi cranici (destri e sinistri), numerati dall'alto verso il basso con numeri romani. Essi hanno un'organizzazione più complessa rispetto ai nervi spinali. Anche i nuclei dei nervi cranici (nuclei encefalici), ossia le zone in cui sono situati i corpi cellulari dei neuroni corrispondenti, sono più complessi di quelli spinali. La sostanza grigia, a differenza del midollo spinale, non è raccolta in un'unica formazione ma è suddivisa in vari nuclei in parte ai nervi encefalici. Quasi tutti i nervi cranici sono connessi a dei nuclei di materia grigia all'interno del tronco encefalico e gli assoni da e per i nervi cranici incontrano le loro sinapsi all'interno di questi nuclei. Come nel midollo spinale, anche i nuclei del tronco encefalico sono divisi in anteriori motori e posteriori sensoriali. Nel tronco encefalico vi sono inoltre nuclei non direttamente connessi all'origine dei nervi encefalici, detti nuclei propri (fra i quali citiamo, per l'importanza rivestita nel sistema dell'equilibrio e postura, i nuclei vestibolari e i nuclei oculomotori), e la formazione (sostanza) reticolare. La sostanza reticolare è un'antica formazione nervosa dalla citoarchitettonica caratteristica, costituita da varie tipologie neuronali aggregate in piccoli nuclei, nell'ambito di un complesso reticolato di fibre nervose che si estende per tutto il tronco encefalico. Le fibre della sostanza reticolare appartengono sia vie nervose ascendenti che discendenti influenzando tutto il sistema nervoso.
    Il ponte presenta importanti connessioni col cervelletto (assieme costituiscono il metencefalo) che è la seconda regione dell'encefalo più voluminosa dopo il "cervello superiore". Esso si appoggia posteriormente al romboencefalo piegandone anteriormente l'asse, così che il ponte si trova ad appoggiarsi direttamente sulla base cranica. Il cervelletto è diviso in due emisferi cerebellari divisi dal verme, sulla cui faccia anteriore è presente il flocculo. Esso è costituito da regioni antiche (verme, flocculo e il quarto anteriore dei due emisferi) e regioni recenti (compartimenti posteriori degli emisferi), che rappresentano la parte più estesa, con funzioni diverse. All'interno della sostanza bianca, in profondità, sono situati i nuclei cerebellari (ammassi di sostanza grigia) di cui, il nucleo dentato, risulta particolarmente sviluppato. La sostanza grigia della corteccia cerebellare (ca. 1 mm di spessore) si ripiega in superficie per accogliere il maggior numero possibile di neuroni.
    Superiormente al mesoencefalo (mesencefalo) troviano il diencefalo composto fondamentalmente dal talamo destro e sinistro e dall'ipotalamo posto al centro, quest'ultimo è collegato con la ghiandola endocrina ipofisi (sistema neuroendocrino), con la sostanza reticolare e col sistema limbico. Il sistema o lobo limbico rappresenta quei giri corticali, filogeneticamente più antichi, che circondano ad anello il tronco encefalico e comprende l'amigdala, l'ippocampo, i corpi mammillari ed il giro del cingolo o cingolato (immagine). Il sistema limbico è un circuito costituito da un insieme di centri corticali e subcorticali fra loro interconnessi da proiezioni di fasci di fibre nervose (tra cui le più importanti sono la fornice che unisce ippocampo e diencefalo e la stria terminale che collega l'amigdala all'ippocampo) che trasportano specifici neurotrasmettitori. Notevole è l'importanza dell'insieme ipotalamo-sistema limbico relativamente a numerose funzioni vitali dell'organismo.
    Il telecenfalo, considerato dai fisiologici e dai neuroclinici il "cervello" in senso stretto, è la parte di gran lungo più voluminosa dell'encefalo e ricopre tutte le precedenti strutture. Il telencefalo risulta diviso in due emisferi (destro e sinistro) uniti tra loro profondamente, all'interno della scissura interemisferica (in cui penetrano le meningi), da fasci di fibre nervose che formano un nucleo di sostanza bianca chiamato corpo calloso. Ogni emisfero è diviso in 4 lobi (frontale, parietale, temporale e occipitale) in cui si identificano aree (aree di proiezione) con funzioni motorie o sensitive prevalentemente specifiche.
    La parete degli emisferi cerebrali è la corteccia cerebrale costituita da sostanza grigia ricca di neuroni che riveste la sostanza bianca formata da fibre nervose (assoni). Per far fronte all'aumento del numero delle cellule cerebrali nel corso dello sviluppo evolutivo (nell'uomo sono ca. 10 miliardi), la corteccia cerebrale, come nel cervelletto, ha dovuto ripiegarsi su se stesso, formando le circonvoluzioni (nel regno animale è possibile dimostrare che all'aumentare delle capacità intellettive corrisponde un aumento della complessità delle circonvoluzioni cerebrali).
    L'organizzazione dell'encefalo non si differenzia in modo sostanziale da quella del midollo spinale ma solo nel telencefalo e nel cervelletto è la sostanza grigia (corpi di cellule nervose e fibre nervose amieliniche) a circondare la bianca (fibre nervose mieliniche). Il vantaggio di questo tipo di organizzazione, rispetto a quallo presente nel midollo spinale e nel troncoencefalo (sostanza bianca all'esperno e grigia all'interno), è di consentire vie di collegamenti più brevi (questo vantaggio è sfruttato anche nei computer moderni in cui le chips sono poste esternamente e il cablaggio internamente). Analogamente al cervelletto, all'interno della sostanza bianca, in profondità, sono situati i nuclei della base (globo pallido, sostanza nera, putamen e nucleo caudato; quest'ultimi due spesso compresi nel "corpo striato").
    Quanto più una porzione cerebrale è recente, tanto più complesse sono le sue funzioni. Il midollo allungato contiene i centri vegetativi vitali (in particolare repiratori e circolatori) e collabora strettamente con il ponte, il cervelletto e il mesencefalo in quella che sembra essere la loro funzione principale ovvero la regolazione dell postura in statica e in movimento (situazione simile è presente nei vertebrati inferiori). La formazione reticolare disseminata nel tronco encefalico funge da sistema relativamente autonomo capace di influenzare le strutture nervose di tutto l’asse cerebrospinale: attraverso vie nervose discendenti regola funzioni somatiche e vegetative quali tono posturale, attività motoria, respiro, pressione arteriosa, frequenza cardiaca, tramite le vie nervose ascendenti, le quali raggiungono diencefalo e corteccia cerebrale, modula il flusso degli impulsi provenienti dai recettori sensoriali e provvede ad attivare la corteccia cerebrale mantenendo lo stato di attenzione e veglia.
    Il talamo è il centro riflesso delle emozioni che provocano il pianto e il riso controllandone la motilità relativa e la sensibilità degli imput ricevuti dai recettori periferici. L'ipotalamo e il sistema limbico, con il quale è funzionalmente e strutturalmente collegato, presiedono a quei meccanismi vitali che hanno lo scopo di mantenere costanti le condizioni dell'ambiente interno (omeostasi) e di provvedere alla conservazione dell'individuo e della specie, esercitando il controllo sulle sue emozioni e sulla sessualità: regolazione del sistema nervoso autonomo e dell'apparato endocrino, della temperatura corporea, del ciclo sonno/veglia, della frequenza cardiaca, della pressiona arteriosa, dell'osmolarità del sangue, dell'assunzione di cibo e acqua, della secrezione, acida dello stomaco, del metabolismo dei glicidi e dei grassi, delle emozioni e delle funzioni sessuali. L'ippocampo e' inoltre importante per l'apprendimento e la memoria. La caratteristica peculiare dell'ipotalamo è quella di ricevere degli imput direttamente dall'esterno del cervello. L'ipotalamo infatti riceve direttamente il segnale luce-buio (tratto retino-ipotalamico) e quello olfattivo (via olfattiva basale), in più, esso costituisce, tramite un fascio di fibre nervose e una rete di vasi sanguinei (eminenza mediana dell'ipotalamo) che, come accade anche per gli altri organi circumventricolari, non presentano la barriera emato-encefalica, la parte posteriore della ghiandola endocrina ipofisi, detta neuroipofisi. La neuroipofisi è così formata dai prolungamenti assonici di neuroni il cui corpo cellulare è sito nei nuclei sovraottico e paraventricolare dell’ipotalamo. La neuroipofisi risulta quindi essere in realtà non una ghiandola ma un organo nervoso a tutti gli effetti, un'estroflessione cerebrale formata da tessuto nervoso. Più precisamente la neuropifisi è un organo "neuroemale" in quanto i neurotrasmettitori secreti a livello delle sue sinapsi terminali invece di stimolare il neurone successivo (come accade nelle sinapsi propriamente dette), si riversano nel sangue generando una risposta più generalizzata. Questo collegamento diretto sistema nervoso centrale-apparato endocrino (sistema neuroendocrino) assume grande rilievo nella regolazione generale dei processi vitali. L'ipotalamo inoltre è esso stesso anche una ghiandola endocrina i cui ormoni, agenti sull'adenoiposi (fattori ipotalamici), creano con essa un doppio legame: strutturale (neuroipofisi) e umorale, tramite ormoni (adenoipofisi). Ulteriori ormoni secreti dalla neuroipofisi sono l’ADH (ormone antidiuretico) e l’ossitocina. L'ipotalamo grazie alle sue connessioni con la neocorteccia, col sistema limbico, con la sostanza reticolare, col sistema nervoso vegetativo e col sistema endocrino è considerato da molti studiosi la struttura limite tra somatico e psichico, quella cioè in grado di commutare il segnale pschico in chimico e viceversa. E' grazie all'ipotalamo che gli aspetti mentali, emotivi e istintivi trovano espressione nel soma.
    Nel telencefalo, infine, hanno sede le funzioni cerebrali "superiori" quali il pensiero, il linguaggio, la programmazione motoria ecc.

    Il canale formato dalle vertebre costituisce un'importante protezione per il delicato midollo spinale (che insieme all'encefalo costituisce il sistema nervoso centrale). Racchiuso nel sacco durale meningeo, Il midollo spinale ha forma cilidrica, con diametro medio 8-10 mm, e si estende dal grande forame occipitale (base cranio, corpo della prima vertebra cervicale o atlante), continuandosi dal midollo allungato, a circa la prima o seconda vertebra lombare (non occupa quindi il canale vertebrale per tutta la sua lunghezza) anche se a livello sacrale è presente il midollo sacrale con struttura simile. Qui il midollo spinale termina a forma di cono (cono midollare) e prosegue caudalmente, quale sottile struttura fibrovascolare circondata dai nervi della cauda equina (filo o filum terminale), ancorandosi al coccige (oltre che dal filum terminale, il midollo spinale è mantenuto in posizione fisiologica dai legamenti dentati che lo connettono bilateralmente al sacco durale).
    Al pari della colonna vertebrale, il midollo spinale è diviso in segmenti (segmenti midollari). Sezionando trasversalmente uno di questi segmenti, si trova una disposizione opposta a quella di cervello e cervelletto e uguale a quella del tronco encefalico. Infatti, nel midollo spinale la sostanza grigia è all'interno e la sostanza bianca all'esterno. La sostanza grigia del midollo spinale, composta soprattutto dai corpi delle cellule nervose (neuroni), ha una forma che ricorda una farfalla. Questi ammassi di corpi cellulari rappresentano i nuclei spinali.
    Nelle ali anteriori, dette corna anteriori, sono presenti, tra l'altro, i corpi cellulari dei motoneuroni alfa e gamma (classificazione delle fibre nervose), che innervano la muscolatura scheletrica. Gli assoni di questi neuroni fuoriescono dal midollo spinale, avvolti in una spessa guaina mielinica bianca, tramite le radici anteriori. La radice anteriore è pertanto motoria ossia contiene fibre motrici somatiche (volontarie) ed effettrici viscerali. A livello delle corna anteriori arrivano i segnali motori derivanti dalla corteccia cerebrale e dal tronco encefalico (nuclei vestibolari).
    Le ali posteriori, corna posteriori, si estendono fino all'imbocco delle radici posteriori, dove si raccolgono, in un ganglio spinale, le fibre sensitive (sensibilità estero-propriocettiva). La radice posteriore è quindi sensitiva e contiene fibre afferenti, somatiche e viscerali. Qui terminano anche gli assoni deputati alla soppressione del dolore provenienti dal tronco encefalico. Secondo la teoria del "gate control" il neurotrasmettitore delle fibre del tatto, encefalina, inibisce la trasmissione sinaptica bloccando la percezione del dolore; stimoli emotivi intensi (shock) e stimoli tattili (digitopressione, agopuntura) possono così rendere temporaneamente insensibili al dolore.
    I corni laterali (nucleo intermedio laterale) sono piccole sporgenze a metà strada tra corna anteriore e posteriore. Le loro cellule, tramite le radici anteriori, inviano assoni agli organi innervati dal sistema nervoso vegetativo. Da questa colonna grigia laterale, nascono alcune fibre di natura ortosimpatica (nel tratto toracico del midollo spinale), e parasimpatica (a livello del midollo sacrale).
    Al centro della sostanza grigia vi è un sottile canale centrale (rivestito da epitelio ependimale e in cui può essere presente liquor cerebrospinale) che è un residuo embrionale e non di rado è occluso o dilatato in cisti.
    Immediatamente adiacenti alla sostanza grigia decorrono brevi fasci di fibre nervose, detti fasci fondamentali, che collegano 4-5 segmenti midollari confinanti circondando, come un sottile mantello, l'intera sostanza grigia. Essi provvedono a schemi di riflessi spinali complessi ovvero che non riguardano la muscolatura di un unico segmento (riflessi polisegmentali); tramite i riflessi spinali, ogni singolo segmento mdollare ha la capacità di controllare autonomamente funzioni motorie specifiche che richiedono rapidità di risposta.
    La massa della sostanza bianca è invece formata da lunghi fasci midollari ascendenti e discendenti che collegano encefalo e midollo spinale. Questi fasci decorrono in tre cordoni a destra e tre a sinistra, separati fra loro dalla fessura centrale midollare, dal corno posteriore e da quello anteriore. L'ordine per una contrazione muscolare di precisione (ad esempio riguardanti movimenti delle dita della mano) viaggia lungo fibre che provengono dall'area motoria primaria encefalica attraverso la via piramidale ossia tramite il fascio del midollo spinale (fascio corticospinale) e lungo il fascio corticonucleare diretto ai nuclei dei nervi cranici del tronco encefalico. Il 90% delle fibre del fascio piramidale si incrocia nel midollo allungato, passando dal lato opposto (decussazione), e discende nella compagine del fascio corticospinale laterale. Il restante 10% non si incrocia nel midollo allungato e decorre nel fascio corticospinale anteriore, incrociandosi immediatamente prima dell' entrata nella sostanza grigia delle corna anteriori. Le fibre di entrambi i fasci terminano direttamente (meno di 1/3) oppure tramite un interneurone sulle cellule motorie delle corna anteriori, formando una sinapsi col motoneurone alfa e attivando in tal modo un riflesso spinale.
    Encefalo e midollo spinale formano il sistema nervoso centrale.

    Ciascun segmento midollare emette, uno a destra e uno a sinistra, attraverso il foro di coniugazione o intervertebrale formato da due vertebre adiacenti, i nervi spinali che presentano la confluenza di una radice anteriore (ventrale), da cui partono fibre efferenti (motorie somatiche ed effettrici viscerali) con destinazione l'organo effettore, ghiandola o muscolo, e una posteriore (dorsale), a cui giungono fibre afferenti sensitive (somatiche e viscerali), derivanti dai recettori sensoriali. Tutti i nervi spinali quindi risultano misti ossia composti da una componente motoria e una sensitiva.
    Appena fuori dal foro di coniugazione ogni nervo spinale si divide in 2 rami (entrambi sempre sia motori che sensitivi). Il ramo posteriore (dorsale) non presenta fibre visceromotrici e innerva, dal punto di vista motorio, la muscolatura spinale e, dal punto di vista sensitivo, la regione cutanea del dorso. Il ramo anteriore (ventrale) del nervo spinale costituisce la porzione più voluminosa e funzionalmente importante. Esso possiede fibre somatomotrici e visceromotrici, somatosensitive e viscerosensitive e da esso partono due diramazioni (dx e sx), o rami comunicanti (fibre simpatiche pregangliari), che terminano in un ganglio simpatico per poi interessare i relativi organi bersaglio. I rami anteriori dei nervi toracici percorrono isolatamente i rispettivi spazi intercostali, quali nervi intercostali mentre gli altri rami anteriori si intrecciano e anastomizzano tra loro formando 6 plessi nervosi: plesso nervoso cervicale, brachiale, lombare, sacrale, coccigeo, pudendo.
    Le fibre somatiche motrici e sensitive del ramo anteriore innervano muscoli e pelle degli arti e della superficie antero-laterale del corpo.
    Tutte le parti del corpo, a eccezione del viso, del tratto gastrointestinale e di parti della muscolatura cervicale (zone innervate dai nervi cranici), sono innervate dai nervi spinali somatici (volontari).
    A differenza della colonna vertebrale, il midollo spinale è dotato di 8 segmenti cervicali (invece di 7). I 12 segmenti toracici, 5 lombari, 5 sacrali e 1-2 coccigei sono invece in numero corrispondente alle relative vertebre. I nervi spinali cervicali fuoriescono dal foro di coniugazione superiore alla vertebra corrispondente, fatta eccezione dei due dell'VIII segmento (C8 dx e C8 sn) che escono da quello inferiore, così come accade per tutti i restanti segmenti. Affinchè ciò accada, essendo il midollo spinale più corto rispetto al canale vertebrale (a partire dal quarto mese di vita fetale il rachide si sviluppa più rapidamente del midollo spinale), le radici nervose dei segmenti lombari, sacrali e coccigei divengono sempre più distese verso il basso, formando così un fascio di sottili fibre nervose pressochè parallele che ricordano la coda di un cavallo (da cui la denominazione di cauda equina).
    I nervi spinali e i nervi cranici costituiscono i nervi encefalospinali. Essi insieme ai relativi gangli formano il sistema nervoso periferico.

    ll sistema nervoso periferico è composto da tutti i nervi (cranici e spinali) e i relativi gangli presenti all’esterno del sistema nervoso centrale (SNC). Il sistema nervoso periferico trasporta, tramite le fibre nervose afferenti, l’informazione sensoriale (estero-propriocettiva) al SNC, e, per mezzo delle fibre nervose efferenti (effettrici, motrici), i comandi dal SNC agli organi e tessuti. I corpi delle cellule nervose sono raggruppati nei gangli nervosi del sistema nervoso periferico e nei nuclei del midollo spinale e dell'encefalo, che costituiscono dei pool neuronali con specifiche caratteristiche di organizzazione ed elaborazione dei segnali.
    Il sistema nervoso periferico viene suddiviso in sistema nervoso somatico (o volontario) e il sistema nervoso autonomo (o vegetativo o viscerale o involontario). Entrambi vengono controllati e coordinati dal sistema nervoso centrale. La classica netta separazione tra il sistema nervoso vegetativo, considerato come controllore delle funzioni viscerali in maniera indipendente dalla nostra volontà, e il sistema nervoso volontario, controllato dalla ns. volontà, è oggi sempre più messa in discussione.

    Il sistema nervoso periferico volontario o somatico consiste nella componente del sistema nervoso periferico che controlla i muscoli scheletrici (muscoli definiti volontari) e quindi principalmente i gesti motori. I corpi cellulari dei motoneuroni del sistema nervoso somatico si trovano nella sostanza grigia del midollo spinale e gli assoni raggiungono direttamente i muscoli scheletrici, con i quali si connettono tramite speciali sinapsi (placche motrici). Diverso è invece il discorso per le vie afferenti.

    Il sistema nervoso periferico vegetativo (autonomo, involontario, viscerale) - SNA rappresenta la porzione del sistema nervoso periferico che innerva le ghiandole, la muscolatura cardiaca e quella liscia di organi e vasi sanguigni, interessando, in tal modo, le funzioni del corpo normalmente sotto controllo inconscio (ritmo cardiaco e circolazione sanguigna, respirazione, digestione ecc.). Il sistema nervoso vegetativo (autonomo) è composto sia da fibre nervose efferenti (motrici) che afferenti (sensoriali); il 75% delle fibre del nervo vago sono afferenti. Nel sistema nervoso autonomo la via efferente è sempre costituita da due neuroni (a differenza di quella del sistema nervoso volontario che è costituita da un solo motoneurone): un neurone pregangliare col corpo cellulare posto nel sistema nervoso centrale e un neurone postgangliare, con il corpo cellulare al di fuori di esso, in un ganglio o nella parete dell'organo innervato.
    Il sistema nervoso vegetativo si divide in simpatico o ortosimpatico (toraco-lombare), parasimpatico (cranio-sacrale e metasimpatico (enterico).
    Il sistema nervoso ortosimpatico (simpatico o toraco-lombare) (parte del sistema nervoso vegetativo o autonomo, a sua volta rientrante nel sistema nervoso periferico) è composto da un'unità centrale di controllo, l'ipotalamo e dai relativi corpi neuronali, fibre nervose (efferenti e afferenti) e dai relativi gangli. Il sistema nervoso simpatico presenta coppie di neuroni efferenti (motrici, effettori) posti consecutivamente (I e II neurone). Il primo neurone effettore (pregangliare), localizzato nel corno laterale dei segmenti spinali che vanno dalla prima vertebra toracica (T1) alla seconda lombare (L2), emette un assone che si diparte, attraverso la radice anteriore del midollo spinale, insieme al nervo spinale (ramo anteriore), da cui si divide appena fuori dal foro di coniugazione spinale (foro intervertebrale) dirigendosi, come breve ramo comunicante bianco (fibre pregangliari mieliniche), al ganglio della catena dell'ortosimpatico del segmento spinale corrispondente (ganglio laterovertebrale o paravertebrale) o, quali nervi splancnici (viscerali), ai gangli prevertebrali (ad es. mesenterici e celiaco) posti frontalmente alla colonna vertebrale. I gangli paravertebrali formano le catene (o tronchi) dell'ortosimpatico che appaiono come due fili di perle poste parallelamente, una destra e l'altra a sinistra, lungo tutta la colonna vertertebrale. Tali gangli (le "perle") sono connessi fra di loro da sottili fasci nervosi e ciò consente a una fibra pregangliare di prendere contatti anche con altri segmenti, sia superiori che inferiori. A livello dei gangli paravertebrali e prevertebrali, le fibre pregangliari contraggono sinapsi con i corpi cellulari del II neurone (neurone postgangliare); da qui quindi partono le fibre nervose amieliniche (assoni) postgangliari che raggiungono gli organi bersaglio seguendo i vasi arteriosi vicini (rami vascolari) o vanno distalmente tornando al nervo spinale (rami comunicanti grigi).
    Diversamente da ciò che accade di norma, la porzione midollare delle surrenali (due piccole ma importantissime ghiandole endocrine poste ognuna sopra il polo superiore dei reni), oltre a presentare una componente nervosa esclusivamente simpatica, viene innervata, attraverso i nervi splancnici (viscerali), da fibre nervose pregangliari del simpatico che non si interrompono, ovvero che non formano sinapsi con i gangli della catena paravertebrale o prevertebrali dell'ortosimpatico, connettondosi direttamente a un determinato gruppo di cellule della midollare, cellule cromaffini (formando in sostanza un ganglio interno), stimolandole a produrre le catecolamine adrenalina, noradrenalina e, in minima quantità, dopamina. Ci troviamo qui di fronte a una via direttissima che collega il cervello, tramite il sistema nervoso simpatico, alle surrenali. La visione del pericolo, infatti, mette in funzione questa via immediata (fase di allarme della reazione di stress), inducendo a produrre, da parte delle cellule della midollare del surrene, una miscela “allarmante” composta per l’80% di adrenalina e il 20% di noradrenalina, in quantità dieci volte maggiore del normale. Se però il pericolo perdura (fase di resistenza della reazione di stress), allora entreranno in scena ulteriori significativi cambiamenti (attivazione asse HPA) che coinvolgeranno ancora una volta le surrenali (questa volta la zona corticale), organi primari della reazione di stress.
    Gli effetti del sistema nervoso ortosimpatico sono facilmente comprensibili se interpretati in relazione alla "reazione di attacco o difesa" (stress fisico e psichico): aumentano della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della ventilazione (con dilatazione dei bronchi), del tono dei muscoli scheletrici, dilatazione delle arterie coronariche e dei vasi dei muscoli scheletrici, contrazione dei vasi sanguigni periferici (cute) e degli organi viscerali (tranne cuore e polmoni), dilatazione delle pupille e accomodamento per la visione lontana (tramite rilassamento del muscolo ciliare), rallentamento dei processi digestivi e dell'attività del sistema immunitario, "annebbiamento" dell'attività cognitiva ecc. (schema reazione di stress). ll sistema nervoso parasimpatico è suo antagonista contrastandone e bilanciandone gli effetti.
    Le fibre pregangliari ortosimpatiche utilizzano come neurotrasmettitore l'acetilcolina e il peptide vasointestinale (VIP), quelle postgangliari la noradrenalina, l'adrenalina, la dopamina (prodotte dalla midollare del surrene sotto lo stimolo dall'acetilcolina) e il neuropeptide Y (NPY); il sistema nervoso simpatico è noto anche come sistema adrenergico.
    Come il sistema simpatico, anche il sistema nervoso parasimpatico (o cranio-sacrale) rientra nel sistema nervoso vegetativo o autonomo del sistema nervoso periferico ed è regolato dall'ipotalamo. Anatomicamente è situate nelle zone del canale vertebrale non occupate dall'ortosimpatico ossia il tronco encefalico e il midollo sacrale. Il midollo sacrale, come il midollo spinale propriamente detto, è racchiuso nel sacco durale (nel filum terminale) e presenta la sostanza grigia con la classica struttura a farfalla) e rappresenta la sede delle attività riflesse parasimpatiche per la minzione, l'erezione e la motilità anorettale; l'intervento dei centri sovraspinali consente il controllo volontario di tali attività riflesse. L'innervazione parasimpatica pertanto decorre lungo i nervi cranici, di cui il X o nervo vago innerva gli organi della cavità toracica e addominale (quasi esclusivamente dipendenti da questo nervo) mentre i restanti raggiungono gli organi cranici, e lungo gli assoni dei neuroni parasimpatici presenti nei corni laterali dei segmenti spinali che vanno dalla seconda alla quarta vertebra sacrale (S2-S4). Questi ultimi decorrono poi quasi tutti nel nervo pudendo innervando organi genitali, vescica e intestino retto.
    Tutti i nervi parasimpatici contengono lunghe fibre pregangliari (che utilizzano come neurotrasmettitori l'acetilcolina e il peptide vasointestinale VIP) in quanto, a differenza del sistema nervoso ortosimpatico, i gangli parasimpatici sono situati in prossimità o all'interno degli organi innervati.
    Sotto il dominio del sistema parasimpatico dimorano il rilassamento, il riposo, la rigenerazione, la digestione (aumento delle secrezioni digestive, della peristalsi ecc.), l'immagazzinamento di energia ecc. ("rest and digest"). Pertanto l'azione del parasimpatico si contrappone a quella del simpatico, il più delle volte, all'interno di un raffinato bilanciamento avente come obiettivo l'omeostasi.
    La maggior parte degli organi è innervata da entrambe le componenti del sistema nervoso vegetativo (ortosimpatica e parasimpatica). Vi sono però alcune parti del corpo che ricevono un’innervazione esclusivamente simpatica. Tra queste vi è il fegato e la porzione midollare delle surrenali (due piccole ma importantissime ghiandole endocrine poste ognuna sopra il polo superiore dei reni).
    Oltre a presentare nervi misti (il nervo vago è composto per il 75% da fibre nervose sensoriali), il sistema nervoso vegetativo invia al midollo spinale sensazioni quali, per esempio, dolore, stato di riempimento dello stomaco e della vescica ecc. Tali fibre nervose arrivano normalmente alla radice posteriore del midollo spinale, tramite le vie afferenti, non distinguendosi però in ortosimpatiche o parasimpatiche. Pertanto, poichè nei segmenti del midollo spinale convergono afferenze della sensibilità dolorifica degli organi interni e afferenze cutanee, il dolore viscerale può essere proiettato e quindi percepito sulle aree cutanee, dermatomeri, del relativo segmento midollare (cuore-faccia interno braccio sinistro, cistifellea-addome superiore destro, pancreas-addome sinistro ecc.).
    Descrivendo il sistema nervoso autonomo (vegetativo) occorre ricordare l'esistenza di una terza componente vegetativa: il sistema nervoso metasimpatico (enterico), importante quanto le altre due (ortosimpatica e parasimpatica). Il sistema nervoso metasimpatico è presente all'interno delle pareti dell'intestino e dello stomaco come rete nervosa formata da circa cento milioni di neuroni, collegata alle fibre nervose ortosimpatiche e parasimpatiche (plesso sottomucoso di Meissner e motorio mienterico di Auerbach). Tale sistema nervoso enterico innerva il tratto gastro-intestinale, la colecisti e il pancreas. Ricerche recenti hanno potuto affermare che questa rete svolge un ruolo in gran parte indipendente dal sistema nervoso centrale (SNC). Data l'importanza attruibuita dai fisiologi a tale struttura, essa viene definita come "cervello addominale o "cervello enterico". E' chiaro, data la grande attiguità, che l'alimentazione avrà sul sistema metasimpatico una grossa influenza.
    In conclusione, oggi, grazie all'avvento della psiconeuroimmunologia, sappiamo che il sistema nervoso costituisce una fittissima rete di comunicazione (solo nel cervello vi sono 10 miliardi di neuroni) diffusa in tutto il corpo e strettamente interconnessa con due altri importanti sistemi di regolazione dell'organismo: il sistema endocrino e il sistema immunitario. Al contempo, anatomia e fisiologia del sistema nervoso dipendono in modo importante dal sistema connettivo.

    Nel neurone la trasmissione del segnale lungo l'assone e il dendrite è di tipo elettrico (grazie a una variazione della polarizzazione della membrana) mentre a livello sinaptico è di tipo chimico. I neurotrasmettitori (neuromediatori) sono molecole che consentono la trasmissione degli impulsi nervosi fra due neuroni attraverso le sinapsi o tra fibra nervosa terminale e organo effettore. Il neurotrasmettitore, all'arrivo dell'impulso nervoso (potenziale d'azione), viene liberato dalle vescicole presinaptiche, migra nello spazio intersinaptico fino a fissarsi su specifici recettori della membrana postsinaptica causando la depolarizzazione della membrana e quindi la trasmissione dell'impulso. Nel giro di pochi millisecondi viene disattivato, tramite specifici enzimi (colinesterasi, monoaminossidasi ecc.), e riassorbito nelle membrane presinaptiche (reuptake).
    Esistono numerosi neurotrasmettitori con effetto eccitatorio e inibitorio. L'azione di uno specifico neurotrasmettitore dipende principalmente dalle caretteristiche del recettore postsinaptico (uno stesso neurotrasmettitore può avere effetti inibitori o eccitatori in base al recettore a cui si lega). Oggi sappiamo che un neurone è in grado di sintetizzare diversi neurotrasmettitori nelle diversi sinapsi che contrae, anche se utilizza sempre lo stesso nella medesima sinapsi.
    I principali neurotrasmettitori sono: acetilcolina (presente nei neuroni di tipo colinergico quali i motoneuroni e neuroni effettori viscerali pregangliari), adrenalina, noradrenalina e dopamina (catecolamine secrete dalla midollare del surrene e dalle terminazioni nervose postgangliari del sistema nervoso orosimpatico), serotonina (con azione essenzialmente inibitoria, interviene, fra l'altro, nei ritimi sonno-veglia, nel controllo del dolore e delle funzioni ipotalamiche), aminoacidi GABA (acido-gamma-amino-butirrico, principale neurotrasmettitore inibitorio con presenza ubiquitaria), aspartato e glutammato (principali neurotrasmettitori eccitatori del sistema nervoso centrale). Oltre a questi vi sono molecole più complesse (vere e proprie proteine), i neuropeptidi, che possono fungere da neurotrasmettitori: glicina (neurotrasmettitore inibitorio, analogo al GABA, presente negli interneuroni del midollo spinale), peptide vasointestinale (VIP), neuropeptide Y (NPY), sostanza P, somatostatina, bombesina, istamina, neurotensina, encefalina e prostaglandina che, nel sistema nervoso centrale, possono fungere sia da neurotrasmettitori sia da neurormoni agendo a distanza su bersagli di natura endocrina. Talvolta i neuropeptidi possono agire da modulatori sinaptici (venendo secreti assieme ai neurotrasmettitori a livello sinaptico) organizzando i segnali specifici ed elementari dei normali neurotrasmettitori in un comportamento complesso.
    I neurotrasmettitori hanno un ruolo essenziale, oltre che per la trasmissione degli impulsi nervosi, nella funzione di regolazione-modulazione dell'attività globale del sistema nervoso centrale, incluse le attività cognitive ed emotive.

    In linea generale, la velocità di conduzione dell'impulso è tanto più elevata quanto maggiore è il diamentro della fibra nervosa ed esso va da 0,2 a 20 µm (1 µm = 1 micrometro, corrisponde a 1 milionesimo di metro), con velocità di conduzione da 0,5 a 120 metri/secondo. La vlocità di conduzione è inoltre aumentata in presenza della guaina mileinica.
    Esistono due tipi di classificazione delle fibre nervose una classificazione generale, ossia che riguarda tutti i tipi di fibre, e una specifica per le fibre sensitive.
    La classificazione generale (classificazione di Erlanger e Gasser) risulta:

    Fibre di tipo o gruppo A, sono le tipiche fibre mieliniche dei nervi spinali e sono a loro volta suddivise in alfa, beta, gamma, delta, con diametro e quindi velocità di conduzione decrescente (velocità di conduzione da 120 a circa 6 m/s, diametro da 20 a 1 µm);
    Fibre di tipo o gruppo B, sono le fibre pregangliari (mieliniche) del sistema nervoso autonomo, con valori di velocità di conduzione e diametro fra il tipo A e C.
    Fibre di tipo o gruppo C, fibre amieliniche di piccolo diametro e quindi a bassa velocità di conduzione, che costituiscono più della metà delle fibre sensitive dei nervi periferici e la totalità delle fibre postgangliari del sistema nervoso autonomo (velocità di conduzione da 2 a 0,5 m/s, diametro inferiore a 1,2 µm).
    La classificazione delle fibre sensitive (classificazione di Lloyd) è la seguente:
    Fibre tipo Ia, provenienti dalle terminazioni anulospirali dei fusi neuromuscolari, corrispondono al tipo A alfa della classificazione generale (diametro medio 17 µm);
    Fibre tipo o gruppo Ib, derivano dagli organi muscolo-tendinei del Golgi, corrispondono anch'esse al tipo A alfa (diametro medio 16 µm);
    Fibre tipo o gruppo II, provenienti dalla maggior parte dei meccanorecettori per la sensibilità cutanea fine (esterocettori cutanei), e dalle terminazioni secondarie e a fiorame dei fusi neuromuscolari, corrispondono alle fibre A beta e gamma della classificazione generale (circa 8 µm di diametro);
    Fibre tipo o gruppo III, relative ai recettori intersiziali, responsabili della sensibilità tattile grossolana, della termica e delle sensazioni dolorifiche puntiformi, corrispondono alle fibre A delta della classifica generale (circa 3 µm di diametro);
    Fibre tipo o gruppo IV, riguardano anch'esee i recettori intersiziali, amieliniche, trasportano impulsi della sensibilità dolorifica, termica, del prurito, tattile grossolana, appartengono al tipo C della classificazione generale (diametro 0,5-2 µm).
    Tale differenzione delle fibre nervose è giustificata dal fatto che, in alcune situazioni, è indispensabile che determinati segnali nervosi giungano rapidamente al sistema nervoso centrale (come ad esempio durante la deambulazione o ancor più la corsa), in altri casi invece, come nell'informazione sensitiva relativa al dolore prolungato o cronico, sono sufficienti fibre nervose a conduzione molto lenta.

    Il riflesso nervoso è una reazione del sistema nervoso centrale a stimolazioni esterne o interne (rilevate tramite i recettori sensoriali), atta a modificare lo stato di contrazione muscolare o di secrezione ghiandolare (reazione motoria, vasomotoria o ghiandolare). I riflessi interessano sia il sistema nervoso volontario o somatico che quello vegetativo (o autonomo). Il meccanismo di base, elementare, di un riflesso nervoso, definito arco riflesso o arco diastaltico, è costituito da: recettore sensoriale > via nervosa afferente o sensitiva > centro nervoso (posto nel sistema nervoso centrale) > via nervosa efferente o motoria > effettore (muscolo o ghiandola). Quando i riflessi nervosi hanno come centro nervoso il midollo spinale, si definiscono riflessi spinali, se i centri sono situati nel tronco encefalico si denominano riflessi troncoencefalici.
    I riflessi nervosi vengono suddivisi in semplici (detti anche incondizionati o congeniti) e complessi (o condizionati o acquisiti). Si individuano inoltre due grandi famiglie di riflessi: i riflessi propriocettivi, che originano dalla stimolazione dei propriocettori e che sono monosinaptici (riflesso di stiramento muscolare o riflesso miotatico o osteotendineo ROT, relativo ai fusi neuromuscolari) o disinaptici (riflesso miotatico inverso, relativo agli organi muscolo-tendinei del Golgi), a livello di un solo segmento midollare nel caso dei riflessi spinali, e i riflessi esterocettivi, che derivano dalla stimolazione degli esterocettori della cute e delle mucose, polisinaptici ossia, nel caso dei riflessi spinali, agenti a vari livelli midollari tramite i fasci fondamentali (riflesso plantare, corneale, faringeo, addominale, cremasterico, di retrazione ecc.).
    Grazie ai riflessi, in particolare quelli semplici che presentano il grande vantaggio della rapidità (40 m/s per quelli rapidi), i livelli superiori possono demandare a midollo spinale e tronco encefalico, funzioni motorie specifiche che richiedono rapidità di risposta. Tuttavia, grazie alla modalità parallela, i centri encefalici superiori possono interagire direttamente sugli inferiori integrando e vicariando, in maniera immediata, funzioni; questo aspetto risulta fondamentale nel recupero funzionale di alcune lesioni del sistema nervoso centrale; inoltre, ad esempio, il midollo spinale da solo non è in grado di garantire una deambulazione fluida e sicura. I riflessi spinali lavorano in modo gerarchico: controllo dei singoli muscoli, controllo della coordinazione muscolare riguardante una sola articolazione e riguardante più articolazioni.
    Fatta eccezione per i riflessi monosinaptici (che derivano sempre dai fusi neuromuscolari), in cui è la stessa la fibra nervosa afferente a connettersi con i motoneuroni alfa, il riflesso spinale avviene in genere grazie all'attività intermediatrice di specifici neuroni, collocati nel midollo spinale, detti interneuroni. Gli interneuroni si inseriscono, tramite sinapsi (connessione fra due neuroni), tra neuroni sensoriali (afferenti dai estero-propriocettori) e motori (efferenti). Gli interneuroni hanno perlopiù azione inibitoria (e talvolta facilitatoria) e sono di tre tipi (classificazione delle fibre nervose): (Ia) che coordinano l'attività di muscoli antagonisti (che esercitano azioni opposte), (Ib) correlati alle afferenze degli organi del Golgi che registrano la tensione tendinea e quindi la contrazione muscolare (da notare che l'influenza di questo tipo di interneurone dipende molto dalle afferenze cutanee a bassa soglia e articolari), cellule di Renshaw che hanno azione inibitoria diretta sul motoneurone. Durante gli atti motori, ogni muscolo che agisce su un'articolazione possiede uno o più muscoli antagonisti che vengono contemporaneamente inibiti (inibizione antagonista) o attivati (attivazione antagonista) tramite rispettivamente un interneurone inibitorio o facilitatorio interposto tra le fibre nervose afferenti (sensoriali) e i relativi motoneuroni alfa.
    I riflessi svolgono un ruolo determinante in tutta la fisiologia dell'organismo e naturalmente anche nel sistema dell'equilibrio.
    I riflessi spinali semplici vengono infine utilizzati in campo clinico per diagnosticare problematiche neurologiche.

    Il sistema nervoso centrale è molto sensibile alla pressione e ancor più alla trazione. Scatola cranica e colonna vertebrale non rappresentano da soli una protezione sufficiente. A tale ulteriore protezione provvedono, all'interno del guscio osseo, uno strato adiposo (presente nello spazio epidurale), le meningi e il liquor cerebrospinale. La dura madre protegge inoltre il sistema nervoso centrale dal diffondersi di infezioni (un'infiammazione intradurale può estendersi all'intero sistema nervoso centrale nel giro di ore o pochi giorni). Le meningi fanno parte del sistema connettivale fasciale costituendo la fascia meningea.
    La dura madre e le altre due lamine ad essa concentricamente internamente, aracnoide e pia madre, costituiscono le membrane meningee che rivestono l'intero sistema nervoso centrale. Dura madre e sacco durale inoltre
    La dura madre, definita anche pachimeninge per via della sua natura fibrosa e resistente, è la membrana meningea più esterna composta da tessuto connettivale fibroso ricco di fibre elastiche e poco vascolarizzato ed è internamente rivestita da endotelio.
    La dura madre intracranica o cefalica aderisce intimamente al periostio del tavolato interno della scatola cranica nella cui cavità si prolunga creando quattro pieghe o sepimenti: tentorio cerebellare (divide trasversalmente la loggia cerebellare da quella cerebrale ossia il cervello o telencefalo dal cervelletto), falce cerebrale o grande falce (piega verticale e mediana situata nella fessura interemisferica dei due emisferi cerebrali), falce cerebellare o piccola falce (piega sagittale posta fra i due lobi cerebellari), diaframma della sella turcica (che chiude superiormente la fossa ipofisaria). Insieme al periostio, la dura madre cefalica costituisce la parete dei seni venosi (rigidi canali in cui circola il sangue venoso).
    La dura madre cefalica si continua con la dura spinale, a livello del forame magno (forame occipitale), dove i suoi foglietti periosteo e meningeo, fusi a livello del cranio, si sdoppiano costituendo rispettivamente il rivestimento periostale interno delle vertebre (dello speco vertebrale) e il sacco durale separato dalle pareti interne del canale vertebrale dallo spazio epidurale. Questo spazio peridurale risulta riempito da tessuto adiposo (tendenzialmente molle e globulare e la cui quantità è in rapporto a quella di tutto l’organismo, per cui è maggiore nei soggetti obesi), da frange di tessuto connettivo e da vasi sanguigni e linfatici. Lo spazio epidurale è chiuso caudalmente a livello del coccige tramite la membrana sacro-coccigea, è a contatto anteriormente con il legamento longitudinale posteriore, lateralmente con i forami intervertebrali e le lamine vertebrali, posteriormente con i legamenti gialli (flavum). Esso pertanto non è uno spazio chiuso in quanto comunica tramite i forami intervertebrali con i tessuti perivertebrali. Il suo spessore è in rapporto alla posizione e alle dimensioni del sacco durale;:essendo quest'ultimo posto più vicino alla parete anteriore del canale vertebrale, lo spazio peridurale è maggiore sulla linea posteriore mediana specie a partire dalla seconda vertebra lombare (qui misura circa 5-6 mm nell’adulto) in giù, dove il sacco durale comincia a ridursi di diametro. Nella regione medio toracica tale distanza, sempre nell'adulto, è di circa 3-4 mm, nella regione cervicale inferiore è di circa 1,5- 2 mm. All’interno vengono iniettate e si diffondono le soluzione anestetiche.
    Il sacco durale rappresenta un lungo manicotto che circonda il midollo spinale e il midollo sacrale, possiede delle estensioni tubulari laterali che rivestono le radici dei nervi spinali, accompagnandoli attraverso i fori di coniugazione intervertebrali. Nel punto in cui la radice nervosa dorsale e quella ventrale si uniscono per formare il nervo spinale, la dura madre si fonde in un singolo manicotto (includente anche aracnoide e pia madre) che si continua come epinevrio del nervo spinale. Caudalmente, il sacco durale si restringe, a livello della II-III vertebra sacrale, riveste la cauda equina e il midollo sacrale (cisterna lombare) nonchè il filum terminale ancorando quest'ultimo al periostio coccigeo (faccia dorsale della I-II vertebra coccigea) tramite il legamento coccigeo formato dalle tre membrane meningee fuse assieme. Il sacco durale contiene quindi aracnoide, pia madre, midollo spinalemidollo spinale, midollo sacrale, radici nervose spinali, nervi spinali e della cauda equina e liquor cerebrospinale.
    Il filum o filo terminale spinale rappresenta il prolungamento terminale del midollo spinale (contenente il midollo sacrale) costituito da una sottile e lunga (diametro ca. 2 mm, lunghezza totale ca. 25 cm) struttura fibrovascolare, composta principalmente da tessuto fibroso in continuità con quello della pia madre. Il filum terminale ancora il cono midollare, al periostio del coccige.
    E' possibile suddividere strutturalmente Il filum terminale in due porzioni:
    1) filo terminale interno, contenuto entro la guaina tubulare del sacco durale, circondato dai nervi della cauda equina (grazie al proprio colore bluastro-bianco il filum terminale può essere facilmente distinto dalla cauda equina), si estende per ca. 15 cm dal cono midollare al bordo inferiore della seconda vertebra sacrale (S2), dove si fonde con il sacco durale stesso.
    2) filo terminale esterno, dalla punta del sacco durale prosegue caudalmente fino al livello della I o II vertebra coccigea rivestito dalle tre membrane meningee fuse tra loro che lo ancorano al periostio della relativa faccia dorsale formando il legamento coccigeo (o sacro coccigeo).
    L’interesse attorno al filum terminale è perlopiù dovuto alla "sindrome del midollo spinale ancorato" (tethered cord syndrome), in cui il midollo spinale è trazionato inferiormente da un filum patologico. La presenza infatti di una quantità elevata di fibre connettivali elastiche disposte longitudinalmente all’interno del filum terminale gli consentono un ruolo di "ammortizzatore" fisiologico atto a prevenire eccessive trazioni midollari durante i normali movimenti del tronco (flessione antero-posteriore e rotazione).
    Va inoltre considerato che a contatto con la superficie esterna del filo terminale sono presenti alcune fibre nervose, probabilmente nervi coccigei rudimentali. Infine, il canale centrale del midollo spinale prosegue al suo interno per 5 o 6 centimetri.
    Oltre che dal filum terminale, il midollo spinale è mantenuto in posizione fisiologica dai legamenti dentati che lo ancorano bilateralmente al sacco durale.

    Situata direttamente all'interno della dura madre cefalica e del sacco durale (ai quali è mantenuta adesa tramite la pressione del liquor cerebrospinale, presente nello spazio subaracnoideo, e dai legamenti dentati che si dipartono dalla pia madre), l’aracnoide è una sottile e trasparente membrana, non vascolarizzata, composta da fibre collagene incrociate a mo di fitta ragnatela (da cui il nome). La membrana aracnoidea, a livello dei seni venosi cerebrali, presenta le granulazioni o granuli di Pacchioni o villi aracnoidei, formati da tessuto trabecolare subaracnoideo rivestito dall'aracnoide (assenti nei bambini, si sviluppano verso il 10°-12° anno aumentando in special modo in età senile, allorché spesso si calcificano) che riassorbono nel circolo venoso il liquido cerebrospinale. L'aracnoide è saldamente connessa alla membrana più interna, la pia madre, tramite tralci connettivali (aracnoide e pia madre vengono definite leptomeninge, data la loro sottigliezza).
    La cavità subaracnoidea, definita spazio subaracnoideo o subaracnoidale, spessa alcuni mm che si forma tra la membrana aracnoidea e la pia madre, è ripiena di liquido cefalorachidiano (liquor cerebrospinale). Lo spazio subaracnoideo presenta delle porzioni espanse definite cisterne liquorali o della base (essendo perlopiù presenti nella base del cranio). Tali cisterne si determinano in quanto mentre la pia madre riveste intimamente l'encefalo, seguendo tutte le sue scissure e solchi, l'aracnoide e la dura madre vi possono passare a ponte, formando così le dilatazioni dello spazio subaracnoideo.
    Le cavità cerebrali e midollari contenenti liquor cerebrospinale servono a proteggere da sollecitazioni meccaniche e a consentire espansioni limitate dell'encefalo (ad es. dopo una commozione cerebrale) senza aumento della pressione endocranica.

    La pia madre, costituita da fibre connettive reticolari ed elastiche, rappresenta la membrana meningea più interna, più sottile e più vascolarizzata (la maggior parte dei suoi vasi irrorano le strutture nervose sottostanti). Essa aderisce, penetrando in tutte le infrattuosità, alla superficie dell’encefalo (molto intimamente), del midollo spinale e sacrale. Dalla superficie della pia madre e per tutta la sua lunghezza si dipartono, a destra e sinistra sul piano frontale, i legamenti dentati, lamine festonate che fissano il midollo spinale alla parete del sacco durale, sospendendolo in modo elastico, tramite prolungamenti a punta (18-22 per lato con l'apice inguainato dall'aracnoide) sottendenti delle arcate al di sotto delle quali le radici ventrali e dorsali dei nervi spinali si incontrano.
    Insieme alla membrana aracnoidea e al sacco durale, la pia madre riveste il filum terminale (formando anche il legamento coccigeo che lo ancora al coccige) e le radici dei nervi spinali fino a costituire parte dei rivestimenti epineurali.
    La pia madre forma i plessi corioidei dei ventricoli cerebrabili, granulazioni rosee riccamente irrorate e ricoperte da epitelio ependimale (costituente la barriera emato-liquorale), che producono il liquor cefalorachidiano.

    Il liquor cerebro-spinale (liquido cefalo-rachidiano) è un ultrafiltrato incolore e trasparente del plasma sanguineo, con esso isotonico ma di differente composizione (povero di linfociti e proteine, con molte meno albumine, glucosio, potassio, calcio), che permea il sistema nervoso centrale. Il liquor cerebrospinale si trova nello spazio subaracnoideo (tra aracnoide e pia madre), bagna l'encefalo, il midollo spinale, le radici e i relativi nervi periferici e i globi oculari. Il liquido cefalorachidiano occupa anche gli spazi "interni" del sistema nervoso centrale quali le cisterne, i ventricoli cerebrali e il sottile (e spesso occluso) canale midollare centrale (spazio liquorale interno).
    Il liquor cefalorachidiano ha funzione di protezione e sostegno (l'encefalo ci galleggia letteralmente diminuendo il suo peso a 25 grammi). Esso è in grado di assorbire traumi esterni distribuendone le relative forze creando, in condizioni fisiologiche, l’ambiente ottimale per le attività delle cellule nervose: chimicamente la sua composizione è simile a quella del liquido interstiziale del tessuto nervoso, vi è quindi uno scambio continuo tra essi, parte dei metaboliti anzichè essere riassorbiti dai capillari finisce nei ventricoli e poi nel liquor (pertanto ogni alterazione nell'interstizio si trasmette nel liquor, da ciò deriva la diagnostica liquorale), supplisce alla quasi totale assenza di un sistema linfatico del sistema nervoso centrale, trasporta messaggi ormonali. Inoltre, il liquido cefalo-rachidiano spinge l’aracnoide perifericamente mantenendola adesa alla soprastante dura madre.
    La trasmissione degli impulsi nel sistema nervoso avviene quindi tramite specifici messaggeri che viaggiano lungo le vie neurali così come per mezzo del sangue, della linfa, della matrice extracellulare e del liquor cerebrospinale.
    La produzione di liquido cefalorachidiano è di tipo attivo (è indipendente dalla pressione arteriosa) ed è pari a circa 300-500 ml al giorno con un ricambio giornaliero di tre-quattro volte; pertanto il volume di liquor circolante si aggira sui 100-200 ml. Il liquido cerebrospinale viene prodotto dai plessi corioidei situati nei ventricoli cerebrali rappresentati da quattro cavità comunicanti presenti all'interno dell'encefalo (residuo del lume del primitivo tubo neurale a livello encefalico) in cui viene prodotto e circola il liquido cefalorachidiano. Il primo e il secondo, definiti ventricoli laterali, si trovano all'interno degli emisferi cerebrali (di gran lunga quelli di maggiori dimensione, si estendono dal lobo frontale ai lobi occipitali) e comunicano, tramite i fori interventricolari destro e sinistro di Monro, con il terzo ventricolo, impari e mediano, contenuto nel diencefalo il quale, a sua volta, è in comunicazione per mezzo dell'acquedotto mesencefalico del Silvio (o acquedotto cerebrale) col quarto ventricolo presente nel romboencefalo. Il liquido cerebrospinale si riversa dal quarto ventricolo nello spazio subaracnoideo attraverso il foro di Magendie e i due fori di Luschka, a livello del midollo allungato.
    Il liquor cerebrospinale possiede movimenti dinamici propri ma ritmati dall'attività cardiaca. Durante la contrazione sistolica il liquor dai ventricoli si dirige verso gli spazi oculari, intrarachidei e nel canale midollare centrale (quest'ultimo si espande in alto nei ventricoli cerebrali); durante il rilassamento diastolico il senso di flusso si inverte risalendo senza però oltrepassare i forami di Magendie e Luschka in cui la direzione è sempre dal comparto intracranico a quello extracranico.
    Una volta svolto il suo compito il liquor viene riassorbito nel circolo venoso perlopiù a livello delle granulazioni o villi aracnoidei (granulazioni di Pacchioni) che sporgono all'interno dei seni venosi cerebrali (in particolar modo nel seno sagittale). Granulazioni sono presenti anche vicino alla radice nervosa dorsale del gangli spinali lungo tutta la colonna. Un ulteriore riassorbimento avviene a livello della porzione meningea dell'epinevrio dei nervi spinali (questo spiega come un liquido introdotto nello spazio subaracnoideo si diffonda in tutta la guaina del nervo).
    Se il deflusso del liquido cefalorachidiano è ostacolato, si registra un pericoloso aumento della pressione encefalica che può comportare conseguenze anche molto gravi (fino al decesso). L'idrocefalo è quella condizione per la quale il liquor cerebrospinale si accumula nelle cavità ventricolari, che si dilatano e determinano un aumento della pressione endocranica.
    L'analisi cellulare, biochimica e microbiologica del liquor è in grado di dimostrare o escludere soprattutto processi infiammatori o infettivi del sistema nervoso.

    Relativamente alla vascolarizzazione del sistema nervoso centrale, l'elevato fabbisogno energetico fa sì che l'encefalo sia molto sensibile alle variazioni di irrorazione sanguinea. La situazione è particolarmente delicata in quanto il collo, attraverso il quale corrono le arterie che si distribuiscono nell'encefalo, è particolarmente mobile e sottoposto, col passare degli anni, a stress e conseguenti alterazioni muscolo-scheletriche di orgine posturale e/o traumatica; può quindi succedere che una grossa arteria possa subire compressioni con danni consegurenti a tutto il sistema nervoso.
    L'encefalo e le meningi cerebrali vengono rifornite essenzialmente dalle due arterie carotidi interne e dell'arteria basilare che deriva dalla confluenza, anteriormente al ponte, delle due arterie vertebrali che attraversano le apofisi trasverse delle vertebre cervicali. L'arteria carotide esterna fornisce rami meningei nella dura madre.
    Fra la superficie interna della scatola cranica e la dura madre si ritrovano i seni venosi, rigidi canali a sezione triangolare dove si riversa il sangue refluo. Tra i numerosi seni venosi, i sagittali (superiore e inferiore), situati centralmente, si dividono simmetricamente nei due seni sigmoidei. Il seno cavernoso, posto lateralmente alla sella turcica (presente alla base del cranio e contenente l'ipofisi), riceve dalla vena oftalmica il sangue proveniente dalle regioni anteriore e inferiore dell'encefalo e da alcune regioni del volto (processi suppurativi della cute del viso possono comportare pericolose infezioni dei seni venosi). Le due vene giugulari interne rappresentano le normali vie di deflusso e veicolano il sangue venoso intracranico nelle vene succlavie (posteriormente all'articolazione sterno-clavicolare) e quindi nella vena cava superiore.
    In posizione seduta o eretta, i seni venosi presentano una pressione negativa trovandosi ca. 30 cm più in alto dell'atrio destro del cuore. Essi quindi, analogamente alle grosse vene del collo, devono necessariamente mantenersi pervi per non collassare.
    A causa della rigida struttura dei seni venosi della dura madre, un violento trauma, capace di spostare bruscamente il contenuto craniale contro di essa, può comportare la rottura per pressione delle vene cerebrali creando una pericolosa emorragia che spesso si sviluppa dopo alcuni giorni.
    La circolazione linfatica della dura madre avviene attraverso piccoli canali comunicanti che raggiungono gli spazi epidurali e sottodurali.
    Il midollo spinale presenta una ricca vascolarizzazione alimentata dalle arterie radicolari che prendono origine: nel collo dalle arterie cervicale ascendente e vertebrale, nel torace dalle arterie intercostali, nella zona lombare dalle arterie lombari, nella regione sacrale da quelle sacrali. Le arterie radicolari attraversano i fori di coniugazione vertebrali e formano, in corrispondenza della porzione superiore del midollo spinale, due tronchi arteriosi posteriori e uno anteriore (arterie spinali posteriori e arteria spinale anteriore) che si ramificano all'interno della pia madre penetrando nel midollo spinale a raggiera.
    Il sistema venoso del midollo spinale è molto simile a quello arterioso (le vene sono perlopiù satelliti delle arterie): dalla sostanza grigia e dalla bianca origina le vene intramidollari che radialmente convogliano in un'ampia rete perimidollare che si raccoglie in sei collettori longitudinali da cui nascono le vene radicolari che raggiungono i fori intervertebrali. Non sono presenti vasi linfatici.

    L'endotelio dei vasi capillari del sistema nervoso centrale si presenta continuo (non fenestrato) con cellule unite da giunzioni occludenti o serrate (tight junction). Ciò crea una barriera altamente selettiva, definita barriera emato-encefalica, che impedisce il transito passivo di sostanze idrofile e/o con grande peso molecolare dal flusso sanguigno all'interstizio e quindi ai neuroni. Ulteriore fattore che contribuisce alla formazione della barriera emato-encefalica è la presenza di cellule della glia (tra cui gli astrociti) che con i propri tipici prolungamenti a raggiera formano una guaina completa intorno ai capillari fungendo da ostacolo secondario al passaggio di molecole idrofile.
    In condizioni fisiologiche tale barriera possiede la capacità di proteggere il sistema nervoso centrale da elementi nocivi (sostanze estranee, cellule, batteri, virus, farmaci, ormoni e neurotrasmettitori diretti ad altri organi ecc.) presenti nel sangue pur tuttavia permettendo il passaggio di sostanze necessarie alle funzioni metaboliche così da mantenere l'omeostasi del sistema nervoso centrale. Sostanze lipofile come l’ossigeno, il diossido di carbonio, l’etanolo e gli ormoni steroidi sono in grado di attraversare passivamente la membrana emato-encefalica mentre altre quali aminoacidi, glucosio, insulina, lipoproteine a bassa densità (LDL) ecc. richiedono un trasporto attivo mediante specifiche vescicole.
    L'efficacia della barriera emato-encefalica può essere compromessa in situazioni quali ipertensione arteriosa, iperosmolarità, infezioni, stati infiammatori, traumi, esposizioni a radiazioni ecc.).
    La barriera emato-encefalica non è presente a livello di alcune aree dell'encefalo poste nei pressi del sistema ventricolare, definite "organi circumventricolari", in cui, grazie al facile transito di molecole dal sangue ai ventricoli e viceversa, il sistema nervoso centrale monitora la composizione del sangue circolante. Organi circumventricolari" sono: la neuroipofisi, l’eminenza mediana dell’ipofisi, l’epifisi, l'area postrema (“centro del vomito”), l'organo subfornicale (regola i liquidi corporei), l'organo vascoloso della lamina terminale,

    Come gli organi circumventricolari, anche i plessi corioidei presentano un normale endotelio fenestrato (senza giunzioni serrate), al loro esterno esiste però un sottile epitelio (epitelio ependimale o ependima) formato da specifiche cellule della glia definite ependimali (o ependimociti). L'ependima delimita le cavità del sistema nervoso centrale, rivestendo i ventricoli cerebrali e il canale centrale del midollo spinale, e costituisce una seconda barriera (oltre a quella emato-encefalica), la barriera emato-liquorale. Questa barriera emato-fluido cerebrospinale seleziona (in base alla liposolibilità, grandezza e tramite trasporto attivo per le sostanze idrosolubili) il passaggio di sostanze dal plasma al liquor cerebrospinale e viceversa attraverso meccanismi di riassorbimento, supplendo in tal modo alla carenza di vasi linfatici del sistema nervoso centrale. Inoltre, il battito delle ciglia delle cellule ependimali favorisce la circolazione del liquido cerebrospinale.

    Essendo le retine oculari estensioni del sistema nervoso centrale, va qui considerata anche la barriera emato-retinica, facente parte della barriera emato-oculare e consistente in un endotelio monostrato continuo e con giunzioni occludenti (tight junction) con all'esterno un epitelio pigmentato (barriera emato-oculare esterna). La barriera emato-retinica regola il passaggio di molecole dai vasi retinici (coriocapillari) alla retina (la retinopatia diabetica consiste nell'indebolimento fino al collasso della barriera emato-retinica).
    Pertanto le barriere emato-encefalica, emato-liquorale ed emato-retinica assicurano l'omeostasi dei liquidi extracellulari nei quali operano e vivono i neuroni.

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